Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  dicembre 31 Venerdì calendario

Intervista a Giuseppe De Rita

Per il professor Giuseppe De Rita che da decenni riesce a intuire i mutamenti profondi della società italiana è troppo presto per dire se lo smart working entrerà per sempre nelle nostre vite. «Dobbiamo aspettare almeno sei mesi e vedere come si ritorna a un ritmo normale, perché noi siamo ancora nella pandemia e nel post pandemia. La pandemia ha giustificato il lavoro da casa, bisognava allontanare i lavoratori dal posto di lavoro. La post pandemia ha cercato di riportarli in gran parte al lavoro, nell’industria e nei servizi, ma per la pubblica amministrazione il ministro ha dovuto imporsi perché non c’era una naturalezza, diciamo così, dei lavoratori nel voler rientrare in ufficio».Quindi lei non si schiera tra i teorici della fine del lavoro in ufficio?«C’è una tendenza dei singoli a voler restare lontani dal posto di lavoro pur mantenendo un rapporto di lavoro e un’efficienza. Ma nei fatti nessuno sa come ci si comporta. Per esempio nessuno sa quali sono i carichi di lavoro né chi li decide, si dice che si controlla dopo. Ma ancora nessuno sa quale sia il livello produttività. Non sappiamo nulla e ragioniamo in modo generico. Adesso c’è un contratto, bene vediamo come va il contratto. Ma io oggi come oggi non saprei che dire. Sarà che a me piace andare in ufficio la mattina, l’ambiente di lavoro, mi piace chiacchierare intorno a un tavolo. Ragionare. Sarà che non faccio un lavoro impiegatizio ma per conto mio la distanza non esiste. Capisco che è un problema vero, lo smart working è scattato con la pandemia e ora si vuole allargarlo e farne una cosa regolata bene. Aspettiamo. Il lavoro da casa non rientra in una normalità consolidata, è ancora un postumo»
In che senso?
«Lavorare in casa significa cambiare gli atteggiamenti e le abitudini del lavoro, penso a quanta gente, me compreso, vanno a lavorare e poi mangiano fuori casa, in questi mesi è cambiato completamente l’assetto delle città. Lavorare in solitudine è alienante. Siamo sempre più soli. Io sostengo da tempo che la vera malattia di questo Paese è la crisi della relazione, non siamo più in relazione con nessuno, la relazione è scomparsa ma la relazione è la vera fonte di ogni nostra crescita. Sarà una relazione di amore, di lavoro di affari o di imbrogli ma è una relazione. Invece noi non abbiamo più relazioni. L’ho detto tante volte, la bandiera di questi anni è stato il grillismo, il vaffanculo, il vaffa è la rottura di ogni relazione. Tu hai una persona davanti e gli dici vaffa, equivale a dirgli io con te non voglio neanche parlare. Adesso anche questa bandiera della rottura della relazione che è stata vincitrice e ha occupato lo spazio politico per tre o quattro anni può darsi che sia finita. Ma non possiamo sapere per esempio se negli uffici c’è ancora l’impiegato rancoroso, che litiga con il compagno di stanza e dice me ne sto a casa».
Ma molti saranno contenti di restare a casa non crede?
«Non ci sono neanche propensioni nette dei singoli. Molta gente vuole andare al lavoro perché in casa si annoia, si riduce alla depressione. Altri dicono ma per carità, svegliarsi alle 7 per andare in ufficio alle 8, io dormo fino alla 10 e lavoro da casa. Siamo tutti in un momento di alta soggettività. Inoltre capisco il vantaggio per il lavoratore ma gli utenti? C’è questo mito che possiamo fare tutto nel digitale. Fare il compitino da casa. Operazioni in banca. Acquistare di tutto e di più. Il digitale è importante ma deve rispettare una struttura sociale più profonda. Il lavoro non è riconducibile al singolo. Anche io ho lavorato in un ministero. La mattina avevo i faldoni e alle dieci avevo finito. Il lavoro vero non è così, ha bisogno di un confronto, almeno di una relazione, ha bisogno che controllo quello che ho fatto con il mio vicino di banco. Magari ci litigo ma vado avanti. È così che si cresce. Il rapporto umano nel lavoro è importante. Stiamo perdendo delle cose ma non è detto che sarà per sempre. Magari tra un anno torneremo a mangiare fuori e ad abitare le nostre città. Non c’è una tendenza precisa. E non c’è ancora una ricerca una sullo smart working. Molte imprese non vogliono far tornare i dipendenti in ufficio ma il lavoro è un collettivo. Sento tante opinioni, chi teorizza che avremo un lavoro ibrido, chi è sicuro che non torneremo indietro. Una marea di opinioni ma ricordo che nel mondo delle opinioni davvero uno vale uno come nei social e nel talk. Perciò mi taccio. Sono le tragedie degli ultimi 25 anni. Il vaffa e l’idea che uno vale uno. Per ora abbiamo solo dei sondaggi, è necessario fare delle ricerche, e prima di sei mesi non avremo le idee chiare». —