La Stampa, 31 dicembre 2021
Nel letto di Houellebecq. L’intervista di Le Monde
Sul letto sfatto, tra le lenzuola stropicciate, ci sono un pacchetto di sigarette, un accendino, un posacenere che straborda di mozziconi, un telecomando, un paio di occhiali, un pigiama appallottolato e anche, vestito di un completo di jeans, che ha già vissuto chiaramente abbastanza, Michel Houellebecq. Le ginocchia leggermente piegate, la star mondiale della letteratura francese contemporanea tira dalla sigaretta e interrompe d’un tratto quello che stava facendo per constatare: «Io sono steso, lei è seduto. È un po’ strano. Mi sembra di fare una psicoanalisi».
È sconcertante, in effetti, tanto più che, dall’inizio del nostro incontro, nel monolocale parigino dove lo scrittore ha scritto Annientare, un nuovo romanzo tanto voluminoso (730 pagine) quanto esaltante, mi racconta i suoi sogni. Va detto che il libro, un thriller politico che svia verso la meditazione metafisica, ne è pieno. Pagina dopo pagina, eccoci scaraventati nelle avventure oniriche del personaggio principale, Paul Raison, 47 anni, alto funzionario del ministero dell’Economia e delle Finanze, che poco a poco esce dal suo vuoto esistenziale e riallaccia i rapporti con il padre, affrontando la morte. È la prima volta che Houellebecq utilizza i sogni in maniera così sistematica. «Non m’interesso troppo a Freud, ho tanti rimproveri da fargli – dice -, ma m’interesso davvero ai sogni e sono molto contento di averne così tanti in Annientare. Il sogno è all’origine di ogni finzione letteraria. Per questo ho sempre pensato che ognuno sia creatore, perché ognuno ricrea delle finzioni a partire da elementi reali e irreali. È un punto importante. Io scrivo quando mi sveglio. Sono ancora un po’ nella notte, mi resta qualcosa del sogno. Devo scrivere prima di farmi una doccia. In generale, dal momento in cui ci si lava, è finita. Non siamo più buoni a niente».
È in questo antro fumoso, su questo letto che Houellebecq ha sognato Annientare. Sul muro del monolocale, situato nel quartiere asiatico del 13° arrondissement, si possono contemplare le foto che l’hanno accompagnato durante la redazione del romanzo. Si vedono Bruno Le Maire (ndr, oggi ministro dell’Economia) nel suo dicastero, che Houellebecq ha a lungo percorso e il cui labirinto di corridoi ha fornito materiale a uno dei sogni di Paul Raison; Carrie-Anne Moss, l’attrice che interpreta Trinity in Matrix, della quale la moglie di Paul, Prudence, è il ritratto; una camera di ospedale pronta per accogliere i pazienti in «stato vegetativo cronico», dove si scopre il padre di Paul, Edouard Raison, già dipendente dei servizi segreti, ridotto al silenzio da un danno cerebrale, nel momento in cui il mondo è destabilizzato da una serie di enigmatici attentati; o ancora dei paesaggi del Beaujolais, verdi colline e vigne scarlatte, che faranno da riparo per lo struggente ricongiungimento di Paul con il padre.
Affronto la domanda chiave, che non vedevo l’ora di porre, quella dei bambini nati o che sarebbero potuti nascere. Sbucano fuori da una bella pagina, una sorta di pugno in faccia, la 169. Paul si ritrova per la prima volta solo, all’ospedale, con il padre muto. E fornisce una confessione inattesa: «Aggiunse che rimpiangeva di non aver avuto figli e fu un vero shock quando sentì queste parole uscire dalla propria bocca». Come Paul, lo scrittore si lascia travolgere da parole che sono più forti di lui: «Lei lo sa, nel momento in cui si correggono le bozze di un romanzo, si può sopprimere tutto quello che si vuole – confida -. Ci sono cose che non si sono scritte in maniera premeditata, ma che si decide comunque di mantenere. Questo passaggio ne fa parte. L’avrei potuto togliere, per pudore, ma no». Questo bambino, che viene fuori a pagina 169, Houellebecq ha quindi deciso di tenerlo. Come ha deciso di conservare il bambino sul quale Prudence si getta con «avidità» e che lei culla e porta a spasso il giorno in cui sua sorella viene a presentarglielo. «Quando Prudence fa questo – precisa Houellebecq -, non sono io che le dico di farlo, ma lei: è la logica interna del personaggio. Se vuole prendere sul serio quello che scrivo, bisogna adottare un presupposto irrazionale secondo il quale i personaggi agiscono da soli».
«Il bambino è un poeta elementare», scriveva Jean Cohen, teorico del linguaggio che Houellebecq ama e che mi ha chiesto di leggere prima dell’appuntamento. «Quando ero un bimbo, quasi non camminavo – si ricorda -. Per andare da un posto all’altro correvo. E poi, a un certo punto, ho smesso di correre. Quando mi succede di correre oggi, ma non avviene quasi più, ridivento un bambino. Quando scrivo delle poesie, ne sono meno sicuro. E dire che la mia infanzia mi riporta a un’assenza di distinzione fra il reale e l’immaginario che, in una certa misura, persiste. Il primo libro che mi ha segnato sono le fiabe di Andersen. Ci credevo totalmente. Per me, la Sirenetta era una persona reale e ancora oggi non sono molto lontano dal pensare che la Sirenetta esista davvero. Alla stessa maniera posso dirle, senza mentire, che Prudence mi manca. Ma, invecchiando, si esce più difficilmente dallo stato di veglia, il mondo ti resta addosso. Si cerca di sfuggire alla coscienza della situazione, perché uno stato di piena lucidità è incompatibile con la vita».
La poesia è un gioco da bambini, lo slancio dei sognatori che restano in piedi. Da giovane, Houellebecq, le sue poesie le leggeva in pubblico. «All’inizio lo facevo per piacere alle ragazze, tutto qui. Bisognava mostrare che ero qualcuno d’interessante, il che non era evidente al primo approccio. Fondamentalmente, sono una puttana, scrivo per raccogliere degli applausi. Non per i soldi, ma per essere amato, ammirato. Poi, non bisogna prenderla negativamente la parola “puttana”. Al tempo stesso, si è contenti di dare piacere». Dicendo queste parole, Houellebecq è fiero di sé stesso. Ma non ci si crede. Leggendo le sue poesie come il suo nuovo romanzo, si sente che la sua scrittura cerca più che mai di fondare, se non una speranza, in ogni caso dei valori. Lo si percepisce molto vicino, disponibile, premuroso, in pieno possesso delle sue forze, felice di proporci una morale che permetta di abitare il mondo, di sopportare la vita, di tenere a distanza i mediocri, i cattivi. In Annientare sono straordinariamente poco numerosi. La forza alla quale cedono i personaggi di Houellebecq non è il Male, ma la tentazione del Bene. «Contrariamente a quello che pretende una formula celebre – taglia corto -, penso che sia con i buoni sentimenti che si fa la buona letteratura. Lungo il XX secolo la letteratura è stata attraversata da un fascino per la trasgressione, il Male. Da qui la compiacenza nei confronti di scrittori collaborazionisti come Morand, Drieu, Chardonne, che trovo mediocri. Non c’è bisogno di celebrare il Male per essere un bravo scrittore! Nei miei libri, come nelle fiabe di Andersen, si capisce subito chi sono i cattivi e chi i gentili. E se ci sono così pochi cattivi in “Annientare”, ne sono molto contento. La riuscita suprema sarebbe che non ce ne fossero più di cattivi, per nulla!». —
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