Corriere della Sera, 31 dicembre 2021
La perdita di potere
L’altro giorno su queste colonne Paolo Mieli ha notato (e stigmatizzato) il voltafaccia compiuto dai partiti nei confronti di un’eventuale candidatura di Mario Draghi alla presidenza della Repubblica non appena una tale candidatura, che molti degli stessi partiti sembravano in precedenza auspicare, è sembrata divenire possibile in seguito alla disponibilità manifestata in proposito dallo stesso Draghi. Il voltafaccia è stato a tutti evidente e lo stupore e la riprovazione appaiono più che giustificati.
Ma quel voltafaccia non è casuale, non si deve a una qualche bizzosa incoerenza. Esso ha una sua ragione profonda. Affonda le radici infatti nell’aspra realtà dei rapporti di forza e nelle ragioni del potere. Cioè nelle due categorie che a dispetto di tutte le illusioni che possono farsi le anime belle costituiscono il cuore freddo della politica e determinano le decisioni dei suoi attori.
Infatti, spogliata di tutte le chiacchiere di circostanza e ricondotta alla sua realtà, la prossima elezione del presidente della Repubblica agli occhi dei partiti che ne sono i protagonisti si presenta a questo modo: come la scelta di chi nei prossimi sette anni sarà il loro padrone.
So bene che non è certamente questo lo spirito con il quale coloro che a suo tempo scrissero la Costituzione intendevano la figura del capo dello Stato. Ma i Padri costituenti commisero l’errore di attribuire alla carica tali e tanti poteri da rendere comunque possibile la trasformazione di quella figura che ormai è sotto gli occhi di tutti: da notaio del sistema politico a suo padrone di fatto. Giuliano Amato ha sostenuto ripetutamente che si trattò di una scelta tutto sommato felice. Che i poteri attribuiti al presidente sono, per usare le sue parole, dei poteri «a fisarmonica», e cioè saggiamente concepiti in modo che a seconda delle necessità essi possano restringersi o dilatarsi: cosicché del loro eventuale allargamento non bisogna allarmarsi, dal momento che esso finirebbe per essere unicamente funzionale alla rimessa in carreggiata del sistema. Sarà. Ma chi decide quando è il caso che quei poteri vadano ristretti o allargati, e come, e fino a che punto? E chi stabilisce quando ricorre l’una o l’altra circostanza? Ancora e soprattutto: che cosa succede del sistema politico-istituzionale quando per molto tempo si verifica un forte allargamento dei poteri del capo dello Stato?
Perché precisamente questo è quanto è successo in Italia. Da almeno un decennio il potere di fatto del presidente della Repubblica si è estremamente e continuamente allargato. Fino al punto che egli è divenuto il virtuale «dominus» della vicenda politica e istituzionale del Paese. Sia ben chiaro a scanso di equivoci: lungi dall’esser causato dalle maliziose intenzioni di chi ha ricoperto via via la carica, tutto ciò è accaduto in forza delle circostanze, e di una in particolare: della caduta a picco della credibilità pubblica dei partiti, della loro crescente inconsistenza programmatica, della paurosa perdita di qualità del loro personale. Ma non solo. Ha contato non poco pure la farraginosità estrema di un bicameralismo perfetto e l’assurdità di un sistema di governo che come norma si rivela ostile a qualunque decisionalità di vertice, essendosi per giunta trovato a dover fare i conti con un insensato regionalismo federalista. È stato l’insieme di tutti questi elementi che hanno contribuito a sottrarre ai partiti immagine, incisività, potere, e li ha resi sempre meno popolari rispetto a un capo dello Stato il quale, più essi perdevano le cose ora dette, più egli invece ne acquistava di eguali. Più essi perdevano prestigio e influenza sostanziale più egli ne acquistava.
Progressivamente e sia pure nel rispetto delle forme esteriori della cortesia istituzionale, a causa di questa oggettiva contraddizione il sistema è sottoposto da anni a una tensione crescente. Una tensione che finora non è esplosa, io credo, proprio a causa della sempre più forte disparità di forze tra i due elementi in contrasto. Una tensione che però non riesce più ad essere contenuta nel momento in cui essa tocca il suo vertice paradossale. Nel momento cioè in cui sono i proprio i partiti, i rappresentanti della parte debole, ad avere tuttavia il potere di eleggere il presidente della Repubblica, vale a dire il rappresentante della parte forte che con ogni verosimiglianza continuerà ad essere sempre più forte e sempre a loro svantaggio. Immaginare infatti che con Draghi presidente della Repubblica ai partiti sia ancora concesso lo spazio di manovra, la possibilità di fare e disfare, di designare i loro amici e clienti a questa e a quella carica, significa immaginare davvero qualcosa d’inverosimile. Come stupirsi allora se, fin dalle avvisaglie della sua candidatura di Draghi, essi manifestano, più o meno tutti, il loro disappunto, mettendo fine alla commedia delle scorse settimane in cui fingevano di non aspettare altro che il momento della sua discesa in campo per avere il piacere di votarlo?