Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  dicembre 31 Venerdì calendario

Intervista ad Ascanio Celestini


Il suo curriculum ufficiale? Presto detto: «Mi chiamo Ascanio Celestini, sono nato al Quadraro, quartiere popolare di Roma. Mio padre Gaetano rimetteva a posto i mobili vecchi; mia madre faceva la parrucchiera da uno che aveva tagliato i capelli al re d’Italia; mio nonno paterno faceva il carrettiere a Trastevere, quello materno il boscaiolo; mia nonna paterna costruiva le scarpe coi guanti vecchi, quella materna aveva una sorella che levava le fatture».
Così si presenta il popolare attore, scrittore e regista romano, che si definisce orgogliosamente un «artista di strada», o meglio, un narratore: «Non ho frequentato scuole di teatro, ma solo dei laboratori. La mia vera formazione è quella familiare, legata ai racconti che sentivo sin da bambino dentro casa: mia nonna paterna possedeva un autentico patrimonio di tradizione narrativa, per questo mi interessa raccontare storie sia in palcoscenico sia nei film che ho realizzato».
Mai tentato di entrare in qualche accademia?
«Ho sempre considerato le scuole ufficiali degli istituti da non frequentare, la mia formazione politica è avversa ai soloni della scena. Però ci ho provato anche io, ma mi hanno sempre bocciato. La prima volta mi presento a quella del Piccolo, e non vengo preso. La seconda, vado alla scuola dello Stabile di Genova: entrando, mi rivolgo agli esaminatori esclamando “salve!” e una commissaria mi risponde stizzita: “La sua esse scivola troppo”. Sono stato eliminato addirittura con la prima lettera, nemmeno la prima parola pronunciata male. Dunque non ho veri maestri, gli unici che possono considerare tali sono, oltre ai miei parenti, le persone che ho incontrato per strada».
Da dove nasce la sua passione per il palcoscenico?
«All’università, studiando antropologia. Mio padre non fu molto contento che io proseguissi gli studi dopo il liceo. Era un piccolo artigiano, una specie di Geppetto, lavorava in una botteguccia talmente piccola, un vero e proprio buco con dentro una stufa a legna, che oggi sarebbe vietato dalla Asl, e infatti poi è morto per tumore ai polmoni. Per qualche tempo gli ho dato una mano e la sua maggiore aspirazione era che, col mio arrivo, avrebbe potuto ampliare l’attività, aprendo un negozio dove restaurare e vendere mobili. Un lavoro senza futuro, dato che poi si è imposta Ikea. Ma io non ho accettato questo destino e, contro il parere paterno, sono andato all’università».
Si è laureato?
«No perché, grazie allo studio antropologico, mi sono interessato al teatro: un luogo giusto per l’affabulazione, dove mettere in moto le storie da tramandare. Il teatro è rimasto l’unico posto dove le persone si incontrano per assistere ad altre persone che sono lì, davanti a te e recitano dal vivo. Non amo farlo in streaming, non ha senso, va vissuto senza diaframmi».
Artista di strada con un intento politico. Lei affronta temi cruciali: dallo sterminio nei lager nazisti e l’eccidio delle Fosse Ardeatine, ai manicomi, dagli operai in fabbrica, alla lotta di classe, al razzismo...
«Il teatro è l’agorà dove fare politica, sin dai tempi dei greci, con l’intento di cambiare il mondo, attraverso le regole dell’arte. Non faccio il sindacalista che sale sul palco per elargire comizi...».
Lo spettacolo «Scemo di guerra» è dedicato a suo padre: perché?
«È una vicenda che mi raccontò lui. Era il 4 giugno 1944, giorno della liberazione dai tedeschi, e rischia di morire. In quel periodo dava una mano a mio nonno, che lavorava in un cinema sulla via Nomentana e, nella notte tra il 3 e il 4 giugno, scatta il coprifuoco, non fanno in tempo a tornare a casa. La mattina seguente, si incamminano per arrivare al Quadraro e per strada incontrano i tedeschi che lasciavano la città, i partigiani che gli sparavano, poi gli americani in camionetta che distribuivano sigarette e cioccolate. Mio nonno teneva un pezzo di fegato in tasca, che avrebbe poi voluto cucinare a casa, e scorge per terra una cipolla. Ordina al figlio di raccoglierla, sarebbe stata utile per unirla al fegato in padella. Mio padre si butta sulla cipolla e, forse un cecchino vedendo dall’alto di qualche finestra quel gesto improvviso, gli spara... per fortuna solo di striscio. Lo scemo di guerra è un modo di dire... ce n’erano tanti, a quel tempo, che fingevano di essere scemi per non andare al fronte».
E la «Pecora nera» con cui titola lo spettacolo sul manicomio?
«Ho raccolto circa 200 ore di interviste a ricoverati e infermieri: sia gli uni, sia gli altri sono gli “ultimi”, gli indifesi, gli emarginati. È il manicomio che crea il malato di mente e non viceversa. Fino alla Legge Basaglia si finiva in ospedale psichiatrico se si era pericolosi per sé, per gli altri e di pubblico scandalo. Oggi per fortuna esistono i farmaci, ma ci sono ancora dei pazienti sottoposti all’elettrochoc. La pecora nera del titolo, si riferisce alla storia di un bambino che perde il sostegno familiare perché considerato uno “strano”: la pecora nera ha qualcosa di diverso dalle altre pecore».
Qual è il suo rapporto con Pasolini, cui ha dedicato vari lavori e gli ha reso omaggio con una messinscena intitolata «Museo Pasolini»?
«Ho sempre vissuto in una borgata romana, dove sembra che la città finisca e inizi la campagna. Mi colpiva il fatto che le sue storie, Ragazzi di vita, L’accattone, Una vita violenta, fossero ambientate in una Roma che conosco molto bene. Non era romano, eppure scriveva in dialetto romanesco. Era autorevole, conosciuto in tutto il mondo, i suoi film un successo. Giustamente affermava che lo scrittore è borghese, in quanto ha studiato e la cultura è borghese per definizione, però non è una colpa frequentare la scuola. L’intellettuale borghese ha l’opportunità di tradire la sua classe sociale, denunciando i crimini che essa commette e lui lo faceva con la sua autorevolezza, creando problemi a vari individui. Non a caso è stato ammazzato, hanno massacrato il suo corpo in maniera oscena. L’unico colpevole ufficiale sarebbe Giuseppe Pelosi, in concorso con ignoti, e chi sono questi ignoti? Dopo quasi cinquant’anni ancora non se ne conoscono i nomi. Di sicuro quando è stato ammazzato qualcuno ha festeggiato, mi piacerebbe tanto sapere a chi dava fastidio».
Un argomento che non ha mai trattato?
«I Rom, che chiamo volgarmente zingari. Non ho mai parlato con loro e mi piacerebbe farlo, sono davvero gli ultimi... persino nei campi di sterminio venivano trattati peggio degli ebrei. L’aspetto che mi affascina è che, fra le tante minoranze, non hanno mai chiesto di avere uno Stato, forse per il desiderio di libertà assoluta. Oggi esistono i campi Rom, che somigliano un po’ a dei campi di concentramento».
Si definisce un ateo, però da ragazzo ha fatto il boyscout.
«A parte la scemenza del boyscout che aiuta le vecchiette ad attraversare la strada, mi piaceva farlo perché era un modo di fare politica attiva. Non credere in Dio non significa non avere rispetto dei credenti e, se dopo la morte esiste un al di là, sono ben contento, così rivedo i miei parenti. Farei lo sforzo di credere in Dio, ma lui deve fare lo sforzo di esistere. All’inizio ho frequentato la chiesa, poi ho lavorato con gli immigrati e sono rimasto in una casa dove venivano accolti, per far loro trovare un pasto caldo, per dar loro una mano a trovare qualche occupazione... Più che la vita ultraterrena, bisogna fare i conti con quella terrena. Siamo circondati da misteri, io stesso sono un mistero per me stesso».
Un mistero è anche la sua vita privata, di cui non parla. Si sa che è sposato, che ha due figli...
«Sì, hanno 8 e 15 anni, ma non parlo mai di loro perché, poveracci, già patiscono un padre che non sta mai a casa».
Ma ci racconta cosa accadde quella volta che era in campeggio, come boyscout, e voleva baciare una ragazza?
«Eravamo due adolescenti molto inesperti, non sapevo come fare. Mi chiedevo: qual è la prima mossa? L’abbraccio e mi avvicino alla bocca o devo aspettare che si avvicina lei? Poi ci sono riuscito, ma non sapevo se le era piaciuto e non ero nemmeno sicuro che piacesse a me. Il primo bacio con mia moglie, a 17 anni, fu altrettanto complesso. Un ragazzo, prima di me, le aveva chiesto di fidanzarsi, e lei aveva risposto di no. Così ho pensato: se a quello ha detto no, chissà se a me dice di sì».
Cosa consiglia a un giovane che intende intraprendere il suo mestiere?
«Deve aver ben chiaro in testa che si tratta di un lavoro, non un gioco, non è un mestiere da ricchi e si deve far pagare. Deve avere una preparazione tecnica, per esempio l’uso della voce, che non ti può insegnare un qualunque regista, bensì un logopedista, un foniatra, altrimenti alla fine di ogni replica si resta senza fiato. Non limitarsi a frequentare questa o quella scuola, bensì le sale teatrali e assistere a tanti spettacoli».
Lei, come spettatore, cosa va a vedere di solito?
«Più che i testi, mi interessa vedere come recita questo o quell’attore. Lo stesso testo recitato da attori sbagliati rischia di farmi addormentare, come accadde a uno spettatore, vicino a me, che si era addormentato e si svegliò quando in scena hanno sbattuto un coperchio».
Recentemente ha scritto un libro sulle barzellette. Perché?
«Mi affascinano come letteratura orale che, al contrario per esempio delle fiabe di cui si conosce la storia e si tramandano di generazione in generazione, delle barzellette non si sa l’origine. Appartengono al mondo onirico e, attraverso la battuta, emergono le nostre paure, i desideri nascosti, proprio come avviene nei sogni».
In questo periodo però c’è poco da ridere...
«Davvero poco... però, nella tragedia pandemica, forse possiamo ritrovare le nostre debolezze e magari prenderci in giro, ridere di noi stessi».