la Repubblica, 31 dicembre 2021
Intervista a Franco Ongaro. Dice che fra 20 anni andremo su Marte
È a Nordwijk, Olanda, tra dune affacciate sul mare del Nord, il cuore tecnologico dell’Agenzia Spaziale Europea: l’ESTEC. Il building è di Aldo Van Eyck, ma le meraviglie sono dentro: il Large Space Simulator, che “mima il sole” per studiarne gli effetti sui satelliti; Lorentz, per testarne il funzionamento nel freddo assoluto (-200 °C); la Concurrent Design Faciility, dove si testano idee verificandone fattibilità scientifica, tecnica, economica. Al Centro Europeo per Ricerca e Tecnologia Spaziale lavorano 2.200 persone, più di 400 gli italiani. Uno fra tutti, Franco Ongaro, Direttore Tecnologia, Ingegneria e Qualità di ESA e responsabile dell’ESTEC. Il Master of the Universe, qui.
Ongaro, cosa cerchiamo nello spazio?
«Conoscenza. Capire da dove veniamo e dove andiamo. Viviamo un momento straordinario, in cui la previsione di Einstein che esistessero i buchi neri e avrebbero generato onde gravitazionali è provata: stiamo aprendo una nuova finestra sull’universo. Nello spazio cerchiamo di capire da dove viene la vita. Se ce n’è su Marte. E dallo spazio vedi la Terra come non puoi da terra. Il lavoro maggiore dell’Esa è osservarla, capirne le risorse.
Siamo i più grossi fornitori al mondo di dati sul cambiamento climatico».
Osservare la Terra genera più speranza o più sconforto?
«Io sono un ottimista. Non esiste un Pianeta B, allo stato delle conoscenze. La Terra è la nostra unica astronave».
Su Marte stiamo comunque cercando una nuova Terra?
«Forse riusciremo ad abitarci in condizioni estreme, ma per il momento cerchiamo di garantirci questo mondo».
La ricerca spaziale può essere sostenibile?
«Deve. Stiamo andando verso lanciatori riutilizzabili e combustibili meno inquinanti.
Inventiamo sistemi performanti per non sprecare energia. Nello spazio non ci sono idrocarburi, non puoi “rifare il pieno”. Il “bar dello spazio” è carissimo: dovessimo portare sulla Stazione Spaziale rifornimenti di acqua per rimpiazzare quella usata, costerebbe moltissimo. Quindi lì si beve LO STESSO caffè tutti i giorni: i sistemi di riciclaggio sono avanzati.
Per noi l’economia circolare è indispensabile».
Da ottimista qual è la sua visione del futuro?
«È un’enorme occasione economica, bisogna rifare tutto ricorrendo sempre meno ai combustibili fossili. Come si reinventa il mondo? La speranza sta in giovani, educazione, scienza, tecnologia. E risveglio artistico».
Difficile però separare lo spazio dal suo uso militare.
«Lo spazio è solo “un posto”. Come il mare, dove puoi pescare, navigare, commerciare o fare operazioni militari. Lo spazio è innegabilmente nato e cresciuto grazie al militare. Il GPS non è stato creato per farci girare città che non conosciamo, ma per sapere dove sono le truppe, dove lanciare bombe. Però lo spazio “funziona” molto meglio come strumento di pace che di guerra. Lo sviluppo civile delle applicazioni supera quello militare oggi».
Perché allora questa nuova corsa allo spazio?
«Lo spazio è vittima del suo stesso successo. Noi costiamo poco. Se un miliardario, Elon Musk, può permettersi di fare cose che finora solo i governi più potenti facevano, è per questo. Negli Usa la spesa annuale per il 2022 nella Difesa, approvata col National Defense Authorization Act, è di 770 miliardi di dollari, cifra pazzesca. Nel 2020 la spesa per la Difesa dei Paesi europei ha raggiunto la cifra record di 198 miliardi di euro. Invece il budget della Nasa è di circa 23 miliardi di dollari l’anno (il dipartimento della Difesa ne aggiunge altri 25 in commesse spaziali). Il budget dell’Esa supera di poco i 6 miliardi di euro l’anno. Per l’equivalente per cittadino del prezzo di un biglietto del cinema, prepariamo astronauti, realizziamo Galileo, andiamo sulle comete… Agli stati la corsa allo spazio conviene».
Cosa pensa di Elon Musk?
«È un genio alla Thomas Edison: capisce la fisica delle cose e il business dietro. Ha fatto soldi con Paypal, ma i suoi razzi li conosce fino ai bulloni. Interessante il meccanismo che l’ha generato.
Nasa ed Air Force avevano deciso di mantenere un solo lanciatore e chiesto a Lockheed e Boeing di fare un’offerta. Loro si sono messi insieme, alla Nasa hanno scoperto cosa vuol dire essere in mano a un monopolio e hanno trovato un’alternativa col Falcon 1 di Musk: gli hanno dato un miliardo e mezzo per rifornire la Stazione spaziale con una capsula e un lanciatore che non c’erano ancora. Questo lo ha fatto ripensare da zero le cose.
Anche immaginando di far rientrare quanto mandato nello spazio per riutilizzarlo».
E se riuscirà a far funzionare Starship…
«Sarà in posizione dominante. Oggi ci sono circa 3.500 satelliti funzionanti in orbita, 1.700 li ha messi Musk. Questo è “il” cambiamento: per anni le ditte dello spazio sono state quelle che si occupavano solo di spazio, ma a un certo punto Musk e altri hanno cominciato a vederne la valenza nel mercato. Starlink come internet privato ha vari mercati: militare, quello di chi opera in Borsa, e quello della Tesla. Ognuna è una piattaforma che può trasmettere dati senza passare da altri operatori».
E Bezos?
«La parte di Amazon che più cresce è Amazon Web Service, che fa storage di dati su Cloud per le società».
Su Marte, Musk potrebbe arrivare prima di tutti?
«Non si può escludere».
Per la missione umana quando saremo pronti?
«Quando potremo farli partire con un equipaggiamento che consenta di produrre in loco il combustibile per tornare indietro. Non sarà certo di sola andata! Ma non sarà possibile tornare indietro prima di un anno e mezzo o 2, per le orbite.
Quando andremo?
«Se riporteremo gli astronauti sulla Luna verso il 2025 si può pensare di andare su Marte a metà dei Trenta o Quaranta».
Lei sta per lasciare l’Estec, il primo febbraio diventa Chief Technology and Innovation Officer di Leonardo. Cosa si aspetta?
«È una grossa sfida: le tecnologie spaziali sono un pezzetto della tecnologia allargata, e questo è un ruolo importante. La responsabilità è enorme: Leonardo è un gruppo di oltre 50mila persone; guarda alle trasformazioni tecnologiche del momento, digitalizzazione, nuove tecnologie sui materiali, quantum computing, intelligenza artificiale».
Il passaggio al privato la preoccupa?
«Il nuo vo ciclo tecnologico e l’approccio di open innovation si basa sulla collaborazione fra pubblico e privato, in una logica di sinergie. Gran parte di ciò che fa l’Esa è gestire contratti industriali. Per me sarà un ritorno all’industria interessante, perché oggi deve confrontarsi con la sostenibilità. Leonardo è la più grande industria tecnologica italiana e l’Italia ha capacità e università eccellenti, prepara splendidi ingegneri e scienziati che però poi se ne vanno. Parte della responsabilità di chi prende una posizione come la mia è creare il tessuto che permetta loro di esprimersi al meglio nel Paese».