Corriere della Sera, 30 dicembre 2021
Biografia di Angelo Branduardi raccontata da lui stesso
Il suo piccolo Canada è a Bedero Valcuvia, paesino incastonato nell’Alto Varesotto: casa in legno, calore e pace; qui, da 25 anni, Angelo Branduardi crea musica. «Mia moglie Luisa voleva avvicinarsi ai genitori. Ci siamo trovati bene e non ci siamo più mossi». È una terra di leggende. Come quella di San Gemolo: «I celti invasori lo decapitarono, lui corse a Varese con la testa sotto il braccio, avvisò del pericolo e tornò indietro rimettendosi nella tomba. Ho raccontato la storia in una canzone». La cultura celtica trasformata in musica pop: «Non ho certo l’esclusiva, ma ho partecipato spesso al Festival interceltico di Lorient, sono amato in Bretagna, sono amico di Alan Stivell. Infine ho usato le cornamuse irlandesi: caratterizzano il “Dito e la luna”, l’album i cui testi avevo affidato non a Luisa, come al solito, ma a Giorgio Faletti, un caro amico che non c’è più».
Si sente un menestrello come lo fu Dario Fo?
«Magari... Paragonarmi a Dario è un onore, anche se mi hanno sempre identificato così. D’altronde c’è la poetica frase di un anonimo tedesco dell’anno Mille: “Io sono il trovatore e sempre vado per molti paesi e città. Ora sono arrivato fin qui: lasciate che prima di partire io canti”. È quello che ho fatto per quasi 50 anni».
Ha avuto modo di frequentare Fo?
«L’ho conosciuto a Roma. Un amico mi ospitava gratis nel suo alberghetto e per sdebitarmi facevo il portiere di notte. In varie occasioni Dario è arrivato assieme a Franca Rame. Di Fo ho visto molti spettacoli e ho una raccolta, regalata, di sue stampe».
Il Medioevo e il Rinascimento sono ancora attuali?
«Più che mai. Con la pandemia viviamo una nuova peste. Al Medioevo si dà un’immagine sbagliata: non è stato un periodo buio, ma il primo passo verso l’Umanesimo e il Rinascimento. Speriamo che l’Umanesimo, con l’uomo inserito nella Natura, ritorni al termine di questa peste».
Si sente influenzato più dalla scuola milanese o dai cantautori genovesi?
«Dicono che non appartengo ad alcuna scuola e che nemmeno ne ho fondata una. Sono un caso a parte, come lo fu Franco Battiato».
Contatti e diversità con lui?
«Le due musicalità sono differenti. Battiato aveva una carica caustica che io non ho, anche se sul palco sono ironico. In comune ho la spiritualità della musica. Con Franco ho duettato nel disco dedicato a San Francesco. Gli dissi: “Ti devo far cantare un motivo”. Non chiese di sentirlo o di leggere le parole. Andai da lui e dopo 10 minuti era nato il “Sultano di Babilonia”».
La musica è solo spiritualità?
«No, è pure “carne” ed è l’unica attività che concilia il diavolo e l’acqua santa. Ennio Morricone, con cui ho avuto l’onore di lavorare, diceva: “La musica è l’arte più astratta ed è la più vicina all’assoluto”. Pensava a Dio, ma si può intendere altro».
Chi sono, per Branduardi, i giganti della musica leggera?
«Stimo tutti i coetanei italiani; gli idoli erano però Joan Baez, Bob Dylan, Cat Stevens, Paul Simon. Oggi ascolto Bach, ma anche Bruce Springsteen».
I suoi sono messaggi mistici e non violenti. Ma spesso un po’ rivoluzionari.
«I bambini scoprirono “Alla Fiera dell’Est” mesi dopo la sua uscita. Mentre tutti cantavano di politica, io uscivo con una canzone profondamente religiosa, violentissima, dove tutti ammazzano tutti e dove Dio è uno sterminatore. Questa è una provocazione rivoluzionaria».
Nato a Cuggiono, subito «esportato» a Genova.
«Sono arrivato neonato. Ero un “vicolaro”, la casa era piena di trappole per topi e di scarafaggi. Però ero un principino e ho avuto un’infanzia lieta, anche se in un periodo mi sono ammalato ai polmoni, come Chopin, e sono stato ricoverato al Gaslini».
A Genova ha cominciato a suonare il violino.
«A 4 anni. Volevo il pianoforte, però non c’erano spazio e soldi. Mio padre, un melomane che non sapeva suonare nulla, mi portò da Augusto Silvestri, mitico insegnante di violino. Costui aprì la scatola e fui fulminato dal colore e dall’odore di cera dello strumento. Nel quartiere diventai popolare: per venirmi a sentire si spostavano perfino le prostitute, causando scandalo».
Non ha mai pensato di diventare un Salvatore Accardo?
«Non ho avuto quel talento: ho sempre ritenuto che sarei stato al massimo un ottimo primo violino. Certo, delusi papà».
Come ha trovato la sua strada?
«Per caso: suonavo a Milano, nelle sessioni degli altri. Giravo, pagato 20 mila lire o niente, con una 500 scassata che mi piantava in asso: era piena di strumenti; dentro l’auto dormivo pure, non avevo i soldi per l’albergo».
Una gavetta dura.
«Durata anni: ero a supporto di tutti, anche Pfm, Banco Del Mutuo Soccorso, Le Orme. Dopo Il Rovescio della Medaglia, gruppo hard rock, entravo io con le “Confessioni di un malandrino” e la gente ammutoliva. Ho sempre saputo dominare il palco, ho imparato a gestire le situazioni degli anni 70: ti arrivavano addosso le zolle di terra nei festival pop. E in uno di questi, a Villa Doria Pamphilj, conobbi Battiato».
Sergej Esenin, Dante, William Yeats: i suoi poeti.
«Ma lo sono anche Sandro Penna o Franco Fortini, il mio maestro. Preferisco la poesia al romanzo, al racconto, alla saggistica. La poesia è simile alla musica: è una freccia che ti coglie e ti stravolge. Però Fortini ci fece studiare «I promessi sposi» perché li riteneva un capolavoro assoluto: mi svelò che la traduzione inglese fu curata da Edgar Allan Poe».
Ha lavorato con Paul Buckmaster, l’arrangiatore di Elton John e David Bowie. Ci pensa?
«Paul venne per 1000 sterline a settimana dopo che gli avevo scritto una lettera lunga e mandato una cassetta con i pezzi. Quando andai all’aeroporto capii che la cassetta non l’aveva mai sentita: ma era stato convinto dalla lettera».
«Alla Fiera dell’Est» oppure «Cogli la prima mela»: quale brano è il simbolo di Branduardi?
«Alla Fiera dell’Est. Ormai non mi appartiene più. È patrimonio popolare, sarò ricordato perché i bambini di oggi la insegneranno ai figli. Ovviamente nessuno di loro sa chi è Branduardi...».
Avendone cantato la vita, le sarebbe piaciuto essere San Francesco?
«Non oserei mai... Però sì, mi sarebbe piaciuto. Nella perfetta letizia».
Hobby, curiosità e debolezze di Branduardi?
«Di debolezze ne ho avute tante: gli artisti sono un po’ trasgressori. L’unico hobby che ho avuto è la vela: non yacht, ma derive da regata. Ero bravo, conto di ricominciare anche se il lago mi mette un po’ di angoscia».
Da ragazzo che cosa canticchiava?
«Fui colpito dai Beatles e da “She Loves You”. Ma non la cantavo: ero tenuto dentro gli schemi della musica classica, che insegna molto, ma toglie qualcosa. Per esempio, non so improvvisare, né sul violino, né sulla chitarra, né sul pianoforte. E non so perché».
«Kyrie Eleison» è una preghiera laica?
«L’ho scritta pensando che fosse un grido di dolore. È in sol minore, tonalità triste. Alla fine, per non incitare al suicidio, ho messo un sol maggiore, tonalità di ampiezza e di speranza. La gente, su 6 minuti, ha colto quei 10 secondi più che il resto: così è stato preso come un canto di speranza».
Il «dopo» e la morte meritano un brano ad hoc?
“Non ci ho ancora pensato. Ho parlato tanto di morte, ma in termini di vita. Nel “Ballo in fa diesis minore” dico: “Vieni qui con la tua falce, che un giro di danza e poi un altro ancora del tempo non sei più signora”. Il tempo sconfigge le paure».
Perché ha dedicato un progetto, «Il cammino dell’anima», a Ildegarda di Bingen, una monaca?
«Cercavo una donna che avesse scritto musica nel passato e mi sono imbattuto in un gran personaggio dell’anno Mille: parlava con gli imperatori, era medico, dietologa, protofemminista e ha introdotto il luppolo nella birra. L’ultimo brano, “Generosa”, pare un’aria romantica: quindi Ildegarda ha visto molto avanti».
La colpisce il successo dei Måneskin?
«Sono bravi. Suonano un sano e vecchio rock and roll, ci sta che abbiano successo».
Si orizzonta nel mare di Internet e dei social?
«Comincio a temerlo un po’: ho visto il film di Pif, che è un genio, contro la dittatura dell’algoritmo. Ecco, sono per un utilizzo “umano” e utile della rete e dei suoi derivati».
Il rap e l’heavy metal hanno creato un altro filone, un po’ come ha fatto la dodecafonia rispetto alla musica classica?
«Sì, anche se la dodecafonia, sottolineo, non ha portato a nulla: Schönberg prima di morire disse: “Quanta bella musica ci sarebbe ancora da scrivere in do maggiore». Comunque nel pianeta del rap ci sono motivi molto belli: un altro che considero bravissimo è Eminem».
Branduardi avrebbe potuto avere ancora più spazio al cinema?
«Non mi lamento: ho contribuito a vari film, ho avuto premi, in Momo recita un maestro quale John Huston. Reputo la colonna sonora di “State buoni se potete” una delle mie cose più belle».
Non ha mai voluto andare a Sanremo: perché?
«Semplicemente, non mi ha mai interessato. Rilancio un concetto formulato da De André: l’ugola non è un muscolo».
La capigliatura folta e riccioluta è un’icona di Branduardi?
«Indiscutibilmente sì: l’hanno sempre curata delle parrucchiere».
Le sarebbe piaciuto fare altro nella vita?
«No, non so nemmeno avvitare una lampadina...».