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 2021  dicembre 30 Giovedì calendario

Intervista a Michele Bravi

 Non che in Italia a Michele Bravi manchi il pubblico, anzi, ma negli Usa per uno così andrebbero matti.
Non tanto, o non solo, per le qualità artistiche, ma per la biografia: il tizio di successo che poi sprofonda, ma risorge con forza, volontà e tenacia.
“Comeback”, ritorno, chiamano storie così al di là dell’Atlantico. E Michele a 27 anni di comeback ne ha già vissuti due. Il secondo è tuttora in corso e verrà coronato tra poco più di un mese sul palco di Sanremo con Inverno dei fiori, «canzone nata in estate in un Airbnb fuori Milano».
Discreto paradosso.
«La vita è piena di paradossi.
Avevamo preso un appartamento io e gli altri autori, Federica Abbate, Cheope, Alex Raige Vella e Francesco Catitti. Per scrivere, ma anche perché siamo amici. Stavamo insieme, mangiavamo, ridevamo e lavoravamo. E ci venne questa immagine dei fiori invernali come simbolo di qualcosa di bello ma delicato, da proteggere. Vale per l’amore, certo, ma anche per la musica. Sanremo è l’unico vero palco restato in Italia per darle spazio e dignità».
E i concerti?
«Ho appena finito un tour di successo. Ma i concerti ci sono e non ci sono, di questi tempi. L’inverno della canzone è anche la contingenza che non ti aspetti, può essere una confusione e una nebbia personale o la curva dei contagi che sale all’improvviso».
E come se ne esce?
«Non badandoci, non guardando se è giorno o notte, se è freddo o caldo, ma con l’intreccio, lo scambio umano, l’amore. Quando si ama non esistono le stagioni».
Si vive il presente insomma.
«Certo! È inutile essere nostalgici col passato ed è complicato fare programmi per il futuro. Quindi fioriamo in questo momento, malgrado tutto».
Ma i momenti bui esistono.
«L’ho imparato sulla mia pelle. Ma al buio non nascono solo mostri della mente e paure: puoi anche farci l’amore, sussurrare racconti segreti alle orecchie di qualcuno».
Quanto è autobiografico nelle sue canzoni?
«Del tutto. Ho un approccio diaristico nella scrittura, credo venga anche dalle mie letture, da libri come Il cardellino di Donna Tartt. Amo raccontare le mie incertezze anche perché sono normali in chiunque, posso dire senza presunzione che un certo pubblico si affidi a me per raccontare la propria vita, sono quasi un sostegno».
E come vive questi tempi di pandemia in cui tutti sembrano un po’ senza sostegni?
«Male: ho due genitori medici, quindi i concetti di prevenzione, di salute, di scienza, sono molto forti in me. E in questa situazione emergenziale si esce dal razionale. Mia sorella ha 12 anni meno di me e mi ha fatto notare, dopo aver letto Harry Potter, che la gente, quando arrivava il cattivo Voldemort, non lo capiva. Nel senso che non lo voleva capire: la paura diventa negazione. Ho la fortuna di non conoscere No Vax, ma se capitasse gli spiegherei che i sacrifici si fanno anche per gli altri. Io, per esempio, ho dietro di me 30-40 persone, vaccinarmi e proteggermi è anche in nome loro. E pure questo mi viene dalla famiglia».
Ovvero?
«Penso in questo caso ai miei nonni.
Famiglie difficili, povertà, malattie mentali, invalidità. Mia nonna imparava a leggere e scrivere con me, in cucina. E il nonno mi ha insegnato dignità e rispetto sempre. Da loro ho preso il carattere che resiste alle difficoltà».
E lei ne ha avute. La prima, paradossalmente, vincere “X Factor” nel 2013. Anche lei è stato vittima della maledizione del talent: chi lo vince poi sparisce.
«È come se lei fosse giudicato sui primi anni di lavoro, nella radio locale o nel giornale cittadino. Ero 18enne al debutto, ho fatto tanti sbagli, anche artistici. Quando ne sono uscito non mi sono ricostruito: mi sono costruito, che è diverso.
Vedo quelle foto come quelle d’infanzia: un ricordo affettuoso e nostalgico, nulla più».
E dopo questa (ri)costruzione tre anni fa la seconda botta: l’incidente in auto in cui muore una donna.
Qualcosa di cui vorrebbe non parlare, ma è inevitabile chiederglielo.
«Sull’esperienza del dolore ho fatto un disco, La geografia del buio, in cui ho scelto parole decise e precise. E per questo non voglio parlarne, per non ferire di nuovo chi già è stato ferito allora».
Comprendiamo, ma ci dica come se ne esce, come si torna da una cosa così.
«Non pensando che il nostro buio sia il più grande che esista. Richard Powers scrive che per capire i sussurri del mondo devi praticare un po di umanità. Ecco, leggere mi ha aiutato moltissimo, ho imparato ad avere la visione creativa altrui».
Leggere si fa sempre meno, specie nel suo mondo.
«Mi danno del secchione? Amen. La mia cultura cerco di praticarla, non di esibirla. Ma in generale me ne frego. Lo farò anche con Sanremo: come andrà andrà, non baderò al giudizio degli altri. Neppure sui social».
Di questi tempi? Bum!
«Di questi tempi ancor di più. Per evitare di farmi venire il fegato grosso leggendo certi post io sono stato un anno senza smartphone. Ma sul serio: la gente doveva venire a bussarmi a casa per trovarmi».