la Repubblica, 30 dicembre 2021
Intervista a Michele Ciliberto
Lo studioso Michele Ciliberto spiega perché un nuovo Rinascimento può cambiarci. Come vuole dimostrare il prossimo numero di Robinson
Irrazionalità, superstizione, incertezza. I tempi che viviamo somigliano molto di più allo scenario fuori di testa, eppure credibilissimo, del film già cult Don’t look up, che a qualsiasi idea di rinascita civile o intellettuale.
Guardare il fronte pandemia per credere. Ma se impariamo la lezione dei nostri grandi antenati di circa mezzo millennio fa, possiamo non rassegnarci alle tenebre. Per questo sulla copertina di Robinson in edicola da domani, al termine di un 2021 difficile, troverete un titolo che è un augurio: Buon Rinascimento. Seguito dal racconto di alcune realtà culturali, italiane e non solo, dove germogli di un nuovo umanesimo nascono e si sviluppano, contro ogni catastrofismo.
E per capire se questo seme di speranza ha un fondamento ci rivolgiamo a un filosofo che se ne intende: Michele Ciliberto, autore di splendidi saggi su Machiavelli e Giordano Bruno pubblicati da Adelphi, docente universitario e presidente dell’Istituto nazionale di studi sul Rinascimento di Firenze.
«Mai come adesso – conferma lui – gli straordinari pensatori della crisi cinquecenteschi possono insegnarci a non arrenderci, a sfidare il caos creando nuovi modelli di vita».
Ma prima, professor Ciliberto, sgombriamo il campo dalla fake news secondo cui Umanesimo e Rinascimento sono periodi tranquilli e contemplativi.
«L’importante è distinguere tra storia e storiografia, tra ciò che quel periodo è stato realmente e la narrazione che ne è seguita: quella di un mondo ideale, in equilibrio, chiuso in un’Arcadia. Colpa soprattutto dell’Illuminismo, ma anche degli storici dell’Ottocento.
Ora per fortuna abbiamo una concezione molto diversa, oltre che articolata. Ad esempio, personaggi come Marsilio Ficino o Pico della Mirandola vedono l’uomo quasi come Dio. Per Pico, in particolare, è l’uomo a scegliere ciò che vuole essere. Ma le figure che più parlano al nostro presente sono altre: Leon Battista Alberti, Guicciardini, Machiavelli, Campanella, Bruno».
Che cosa hanno in comune?
«Sono tutti pensatori della crisi.
Hanno la consapevolezza di vivere in un tempo dominato dal disordine, dal caos. Non a caso insistono su concetti come variazione, mutazione. Sentono l’inquietudine dell’epoca. Una consapevolezza che esplode dopo il 1494, l’anno terribile della discesa Carlo VIII, in cui di fatto l’Italia esce dalla scena della grande storia diventando solo terra di conquista. È attraverso la cesura del 1494 che stabiliamo un prima – Pico, Ficino – e un dopo: Machiavelli, Guicciardini».
Insieme a quelle politiche ci sono profonde trasformazioni sociali e culturali, giusto?
«Pensiamo al cambiamento nel modo di fare la guerra. Vengono create nuove armi, cannoni più piccoli e leggeri che permettono agli invasori di entrare dentro le città e saccheggiarle. O alla rivoluzione della stampa, con l’invenzione dei caratteri mobili: un processo che allarga la circolazione del sapere. E poi, naturalmente, alla scoperta dell’America. Eventi che confermano come il Rinascimento non sia stato affatto il tempo dell’armonia».
Come mai quel travaglio si accompagna a un’immensa
fioritura filosofica e artistica?
«Proprio il clima di incertezza fornisce agli intellettuali uno sguardo disincantato sul mondo, stimolando intelligenza e immaginazione. Non si fanno illusioni, la loro è un’analisi rigorosa dei rapporti di forza. Sanno tutti benissimo che la realtà – anzi la vita, per dirla come loro – è dominata dal caos. Ma reagiscono, tentando di dominare con la forza delle idee e con la creatività il disordine, il mutevole: per dirla con una delle parole ricorrenti di Machiavelli e Guicciardini, “l’inopinato”».
Sfidano la realtà, invece di subirla.
«Si chiedono sempre: di fronte alla crisi, cosa posso fare? In primo luogo, si rivolgono alla storia per analizzare e comprendere il comportamento umano. Ma non pretendono di trovarvi regole definitive, proprio a causa del continuo insorgere dell’inaspettato. Guicciardini fa degli esempi: una battaglia che sembra già vinta da una delle parti, poi arriva un temporale e cambia tutto. Sanno che la vita è irriducibilmente imprevedibile, non si lascia chiudere all’interno di uno schema».
Il bello è che questo non li ferma.
«È proprio ciò che dovremmo imparare noi, che viviamo in tempi di crisi e di incertezza altrettanto profonde. La loro grandezza è nel non chiudersi mai nell’esistente. Anzi, lo criticano. E rilanciano sempre, inventando qualcosa di nuovo: Machiavelli il mito del Principe, Michelangelo la Sistina, Campanella la Città del Sole, e così via. Sono dei visionari. Non si arrendono in nessuna circostanza. Proiettando la loro immaginazione nella costruzione di nuovi modelli».
Oggi però, e ancora di più con la pandemia, sembrano dominare rassegnazione e superstizione.
«Come allora, anche adesso sta cambiando la nostra vita quotidiana.
L’Europa è andata in crisi, così come la democrazia rappresentativa: circostanza che ha generato i populismi. Ma noi invece di rilanciare abbiamo paura. Loro costruivano nuovi modelli politici, artistici: Machiavelli scommetteva sull’Italia, Giordano Bruno sull’Europa. Mentre noi abbiamo praticamente abolito l’idea stessa della politica».
Un cambio di passo è possibile?
«Dobbiamo guardare al loro esempio, così come loro guardavano al mondo classico. Recuperando quella visione lucida che ci permetta, ad esempio, di immaginare un’altra Europa, multiculturale e multireligiosa, e di andare oltre l’idea di Occidente».
Sul Robinson in edicola domani cerchiamo di mostrare con esempi concreti che la cultura aiuta, anzi è decisiva. Condivide?
«Assolutamente sì. Ma gli intellettuali non devono richiudersi nelle loro tende, in forme di specialismo o di sudditanza, o andare nei salotti tv.
Non possiamo arrenderci: una cultura rassegnata è un ossimoro.
Come nel Rinascimento, bisogna combattere in campo aperto».
Qualche segnale c’è: progetti di grandi biblioteche o istituzioni come l’Accademia Vivarium Novum di Frascati, dove i ragazzi studiano le lingue classiche.
«Ci sono tanti luoghi splendidi. Ma è importante che facciano rete, che si mettano in sinergia: l’unione fa la forza. La Vivarium Novum, per restare sul suo esempio, dovrebbe collegarsi con altri luoghi di eccellenza, come la Normale di Pisa.
Il punto di arrivo potrebbe essere la nascita di un grande istituto italiano di Cultura».
A misura di giovani?
«Sempre. Ho avuto la fortuna di insegnare alla Normale ed è un’esperienza straordinaria: in tutti questi anni, nessuno studente mi ha mai deluso. Nell’Istituto di studi sul Rinascimento che presiedo, destiniamo gran parte del budget alle borse di studio. Perché scommettere sui ragazzi è davvero l’unica strada possibile».