Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2021
Il caso dell’oro del Venezuela a Londra
La corsa all’oro, un’epopea nella storia economica contemporanea, si riaccende in Gran Bretagna. Anche se quella che si consuma tra Londra e Caracas non è propriamente un’epica e neppure una corsa, piuttosto una disputa con attori di primissimo piano nel proscenio internazionale.
L’oro non è da estrarre in una profittevole miniera ma già custodito nei caveaux, in lingotti. Contesi tra il governo del presidente del Venezuela Nicolas Maduro e la Corte Suprema britannica che, pochi giorni fa, si è pronunciata con un verdetto a sfavore del leader venezuelano. I lingotti, che valgono 1,6 miliardi di dollari, rimangono custoditi nei forzieri della Bank ok England.
La Corte ha riconosciuto Juan Guaidò, (che tre anni fa si era autoproclamato presidente del Venezuela, ndr), titolare di questa ricchezza e ora il contenzioso assume i caratteri di una guerra diplomatica e politica. Il prosieguo della disputa avverrà in un altro ambito giuridico, la Corte commerciale di Londra.
Una querelle iniziata nel 2018 tra la City di Londra, la Banca d’Inghilterra e la Banca centrale del Venezuela, nonché dai governi di Caracas e di Londra.
All’indomani della sentenza di Londra la prima mossa di questa guerra politica e diplomatica sulla “legittima proprietà” arriva da Caracas. L’opposizione venezuelana, due giorni fa, ha approvato la proroga per un altro anno dell’incarico di presidente ad interim del Venezuela per Juan Guaidó. La decisione è stata adottata in una riunione straordinaria della Commissione delegata dell’Assemblea nazionale, organo legislativo il cui mandato quinquennale è scaduto nel 2020 ma che è stato esteso, in parallelo con la nuova Assemblea controllata dai sostenitori del presidente Nicolás Maduro. Guaidó ha dichiarato che «Nicolás Maduro dal 2018 ci deve un’elezione presidenziale, e il mio dovere costituzionale come presidente in carica è lottare per elezioni presidenziali libere».
Immediata la replica di Maduro, che ha criticato la proroga dei poteri del leader oppositore definendola «ridicola». «Là – ha dichiarato durante una riunione trasmessa dalla tv statale – hanno preso una decisione nel Paese di Narnia (così è solito il capo dello Stato riferirsi alle decisioni dell’opposizione, ndr) che nessuno capisce. Non hanno limiti al ridicolo, alla stupidità politica». Il presidente Maduro ha poi sostenuto che «l’estrema destra non fa altro che fare danni. Guardateli – ha proseguito – per cinque anni hanno distrutto l’Assemblea nazionale, promosso sanzioni, cospirazioni, invasioni per cinque anni, soffrendo fino a che non è stata eletta la nuova Assemblea nazionale. Ora camminano proteggendosi dietro a un Frankenstein: la destra non ha limiti alla sua stupidità».
Sarosh Zaiwalla, avvocato che rappresenta il board del Banco central del Venezuela, ha dichiarato che «il nostro cliente desidera procedere nell’iter giudiziario per dimostrare che il board del Banco central del Venezuela è l’unica autorità autorizzata a gestire gli attivi del Venezuela all’estero, nell’interesse del popolo venezuelano.
La disputa non è solo tra Londra e Caracas; quella che si combatte nel Paese caraibico è una proxy war. Stati Uniti e Gran Bretagna dalla parte di Guaidò, Cina, Russia e Iran dalla parte di Maduro.
La vittoria elettorale
A rendere più acceso il dibattito contribuisce un elemento di politica interna: il risultato dell’appuntamento elettorale (municipale e regionale) del 21 novembre scorso, è stato a favore di Maduro.
Elezioni vinte dal presidente chavista e legittimate dalla presenza di vari osservatori internazionali, tra cui l’Unione Europea, il Centro Carter, le Nazioni Unite, e il Ceela (Consiglio di esperti elettorali dell’America Latina).
L’opposizione venezuelana vive comunque una stagione controversa. Nel 2019 erano 60 i Paesi che riconoscevano il governo di Guaidò, oggi sono 16.
Negli ultimi mesi il sostegno a Guaidò ha perduto pedine importanti: l’ex presidente dell’Asemblea Nacional, Julio Borges, è sempre stato un potente avversario politico di Maduro ma negli ultimi tempi ha usato toni molto duri nei confronti di Guaidò: «Il Governo ad interim (di Guaidò, ndr) è gestito da una casta, si è burocratizzato. In sintesi, deve sparire».
Julio Borges, dopo esser stato presidente dell’Assemblea nazionale dal 2000 al 2005 e dal 2010 al 2015, vive a Bogotà, in Colombia, dove il governo colombiano gli ha concesso lo “status di rifugiato”. Da Bogotà, dove ha accettato un incontro con il Sole-24 Ore, continua la sua partita politica ma le distanze da Guaidò sono ormai siderali.
Le prossime tappe nei primi mesi del 2022. Lo scenario non cambia: un governo autoritario e un’opposizione divisa. Il Venezuela replica se stesso, generoso di risorse aurifere, bellezze e violenze. Tre beni nazionali sempre in abbondanza.