il Giornale, 30 dicembre 2021
Pierre Laval brutto, sporco e cattivo
A detta di chi lo conobbe e frequentò, Pierre Laval (1883-1945) non godette mai di grande popolarità in Francia neppure nei momenti della sua maggiore fortuna politica. In un ritrattino che gli dedicò Cesare Rossi, l’antico collaboratore di Mussolini coinvolto nel delitto Matteotti, si legge che «c’era qualcosa nel suo aspetto fisico, nella sua grinta severa, che appariva désagreable», ma anche che «tutto ciò dipendeva dal carattere regionale, chiuso e accigliato, che hanno gli auvergnat», cioè quei rudi contadini cresciuti nei campi alverniati. Lo chiamavano, appunto, «il gitano dell’Alvernia» per il suo aspetto sciatto e all’apparenza poco pulito. Un celebre diplomatico e politico, Léon Nöel, scrisse che il suo tabagismo e l’alito asfissiante lo rendevano poco gradevole. Il fumo, del resto, era a quanto pare il suo unico vizio: persino in carcere gli fu permesso di fumare, perché la carenza di nicotina lo avrebbe fatto crollare fisicamente. Aveva mantenuto le abitudini tutt’altro che raffinate dei contadini del suo paese, come per esempio quella di mangiare, anche in ufficio, pane e salame su un foglio di giornale.
Nato nella località termale di Châteldon da una famiglia piccolo-borghese, Laval si era appassionato fin da giovane di politica. Aveva militato nel partito socialista per il quale era stato eletto più volte all’Assemblea Nazionale. Pacifista convinto, si era schierato contro l’intervento nella Grande Guerra e poi, a conflitto concluso, si era gradualmente spostato a destra anche se, in fondo, sarebbe difficile nel suo caso parlare di una vera e propria ideologia politica di riferimento. L’uomo, come ha osservato Maurizio Serra nel suo studio su La Francia di Vichy. Una cultura dell’autorità (Le Lettere), era apparentemente «senza valori e senza principi, e forse anche per questo privo di fanatismi e di rancori»: era un uomo politico, insomma, specialista di «combinazioni e clientele, brogli e compravendite», tipica espressione di quella Terza Repubblica che avrebbe contribuito ad affossare.
Più volte primo ministro, si era illuso, in più occasioni e in tempi diversi, di poter essere – lui convinto pacifista – una specie di ago della bilancia nel campo delle relazioni internazionali in nome di un «realismo» politico che pensava di incarnare ma che era, probabilmente, frutto solo di illusione. Rientrano in questa logica, per esempio, gli accordi con Mussolini alla metà degli anni Trenta sulla questione della conquista italiana dell’Etiopia. E all’epoca di Vichy sono frutto della stessa logica l’incontro con Hitler a Montoire e la politica «collaborazionista» con i tedeschi, due dei principali capi d’accusa al processo che si aprì nei suoi confronti nella Francia liberata e guidata dal governo provvisorio del generale De Gaulle.
Nella cella della prigione di Fresnes dov’era rinchiuso durante il processo a suo carico, nell’ottobre 1945, Laval scrisse un lungo e articolato documento di confutazione dei ventuno capi d’accusa contestatigli. Pubblicato originariamente in Francia nel 1948 con il titolo Laval parle... per iniziativa della figlia e ora riproposto in italiano con il titolo «Non ho tradito». Memorie dal carcere (Oaks Editrice, pagg. VI-358, euro 25) a cura di Luca Gallesi, è un testo importante sia perché rappresenta, in un certo senso, un ritratto autobiografico di Laval, sia perché racconta particolari sconosciuti o poco noti di un drammatico periodo di storia e sia, infine, perché illustra le motivazioni più profonde delle scelte politiche del numero due di Vichy. Una fonte storiografica, insomma, che gli studiosi hanno troppo spesso ignorato in nome del politicamente corretto o della scarsa simpatia suscitata dall’autore.
Nel volume Laval cerca di accreditare una sua linea di condotta in politica estera che, pur illusoria più che realistica, sembrerebbe dotata di un’indubbia e machiavellica coerenza. Egli lascia intendere di essere stato convinto, fin dall’inizio degli anni Trenta, del fatto che Francia e Germania dovessero mettere da parte l’antica e storica ostilità per stabilire rapporti di buon vicinato. Consapevole, tuttavia, del disegno hitleriano di stabilire l’egemonia tedesca su tutta l’Europa, egli si sarebbe adoperato per creare, attraverso gli accordi con Mussolini e altre mosse che coinvolgevano Paesi dell’Europa centro-danubiana, una sorta di contenimento delle spinte espansionistiche tedesche. E, soprattutto, così operando avrebbe dimostrato la sua costante ostilità alla guerra: «tutta la mia vita, voi ben lo sapete, è stata un apostolato della pace». Naturalmente, anche le vicende della Francia di Vichy erano ricostruite e analizzate in modo tale da contestare l’accusa che gli veniva mossa, e che più lo indignava: essere stato un «traditore» e avere «umiliato» la Francia attraverso la politica di «collaborazione». Laval, che pure non poteva negare fatti ingiustificabili come la persecuzione degli ebrei o l’invio coatto di lavoratori in Germania, sosteneva comunque che l’occupazione tedesca sarebbe stata senza di lui «più crudele» e «omicida».
Comunque la si pensi, l’autodifesa di Laval rimane fondamentale per capire, non tanto lo svolgimento dei fatti, ma piuttosto i meccanismi psicologici e le argomentazioni di quanti furono coinvolti in quel regime di Vichy che costituisce, tuttora, uno psicodramma non superato per i francesi. Laval, come si è detto, scrisse la sua autodifesa in carcere per utilizzarla nell’aula processuale, ma ciò non gli fu possibile, se non in piccola parte. Infatti il processo, che ebbe luogo tre mesi dopo quello al maresciallo Pétain, fu burrascoso e brevissimo, con un imputato battagliero e spesso arrogante che non ispirava simpatia e al quale fu impedito di parlare. Per concluderlo furono sufficienti cinque sole udienze con una chiara violazione dei diritti dell’imputato che scandalizzò i corrispondenti stranieri e spinse gli avvocati difensori a rinunciare per protesta all’arringa finale.
La brevità del dibattimento fu dovuta, con molta probabilità, a due fattori. In primo luogo, al timore che l’Assemblea Costituente che sarebbe uscita dalle imminenti elezioni del 21 ottobre potesse sottrarlo alla giurisdizione del tribunale speciale. In secondo luogo, alla preoccupazione per un possibile intervento a favore dell’imputato da parte della Casa Bianca, perché la figlia di Laval, tutt’altro che antiamericano, era moglie di un illustre diplomatico francese, il conte René de Chambrun, molto introdotto negli ambienti finanziari e politici d’Oltreoceano e, soprattutto, imparentato per via della madre americana con il presidente Roosevelt. La verità è che l’esito del processo e la condanna a morte di Laval erano già stati decisi da De Gaulle. E l’ex primo ministro francese venne giustiziato il 15 ottobre dopo un fallito tentativo di suicidio.
L’ambasciatore americano a Parigi, Jefferson Caffery, disse che il processo aveva «ferito il senso di giustizia» ed era stato «vergognoso». Lo scrittore Paul Sérant osservò che aveva avuto «poco in comune con la giustizia normale» e che era stato un episodio di «lotta politica molto più vasta». Il volume di Laval è l’arringa difensiva che non poté essere pronunciata nell’aula del dibattimento. Il tassello che manca negli atti del processo.