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 2021  dicembre 30 Giovedì calendario

Lo spettro di Saddam, 15 anni dopo

La morte di Saddam, l’esecuzione di Saddam: anche quindici anni dopo ecco immagini davanti a cui non è giusto chiudere gli occhi. No: bisogna tenerli spalancati e maledirla e ancora maledirla quella morte. Occorrerebbe per lei restaurare il lamento funebre, la cosa più antica che ci resta degli esseri umani: frutto della giudiziosa paura del morto, del terrore che potesse tornare indietro. Lo si tributava non solo agli eroi, ma soprattutto ai reprobi. Serviva a inchiodarli alla dimenticanza come un esorcismo definitivo.
E infatti quindici anni dopo lo spettro è ancora qui, ci bracca, non ci dà pace. Non ci siamo liberati di questo Ercole macellaio, di questo pignolo del Male neppure consegnandolo alla umiliante e macabra mediocrità di una impiccagione. I suoi delitti e le complicità che ci hanno per decenni legato a lui non sembrano appartenere alla Storia ma al libro dei canti del demonio.
Ci ingarbuglia nelle sottigliezze del rimorso la bugia che è stata usata per farlo cadere, che possedesse cioè micidiali arsenali di armi di distruzione di massa. Ma l’unico delitto non realizzato, rimasto velleitario, è solo la prova della nostra inadeguatezza morale, non un elemento a discarico del sanguinario Saladino di Baghdad. Conosceva troppo bene i nostri limiti e i nostri difetti, lui, ci inchiodava alla nostra esatta figura. Sforziamoci di non dimenticare, mai, evocandolo cosa è scritto nel registro dei peccati di quel regime criminale: popolazioni irrorate di gas, massacri, torture, guerre sciagurate e senza fine, la sicurezza del potere che si ottiene solo al prezzo di innumerevoli ingiustizie.
Ora possiamo ripensare a quel 30 dicembre del 2006, allo scorrere del film girato con un telefonino nella prigione dove il tiranno condannato a morte incontrò il suo destino. È davvero una tragedia classica che non consente alcuna distrazione. Perché la morte di un uomo singolo vi acquista tutto il suo peso, omicidio esecuzione punizione vendetta dannazione e sepolcro: tutto è lì, esemplare, nudo e senza fronzoli legulei o sacrali, retorica, mistificazione.
Alcuni uomini corpulenti, i volti coperti da cappucci neri, senza divise o simboli, si affannano su una stretta balaustra in ferro attorno a un uomo invece elegante, cappotto nero e camicia bianca, la barba ben curata. Le mani non si vedono strette dietro la schiena dalle manette. Lo sfondo è anonimo, sa di garage, di locale abbandonato recuperato come scenografia provvisoria per non lasciare indizi o prove. Gli officianti il rito della morte si muovono in modo febbrile, scomposto, sembrano loro aver paura. E fretta. Li diresti una banda di sequestratori che temono l’arrivo della polizia più che l’autorità incaricata di una sentenza. Il più grasso, forse il capo, spinge Saddam verso il parapetto della piattaforma, dove si intravede una botola, gli infila al collo un enorme cappio, fa prove, stringe il nodo attorno al collo. L’immagine si allarga. Sotto la pensilina appaiono altri uomini di schiena che insultano, urlano il nome del capo sciita Moqtaba Al Sadr, il cui padre e due fratelli furono assassinati su ordine di Saddam.
Il Raiss è incredibilmente calmo. È il personaggio più dignitoso in questa recita umiliante. Per questo bisogna essere attenti, anche ad anni di stanza. La visione dei personaggi, come avviene per le figure di Dante, trae il suo aspetto essenziale dalla loro morte. Restano straordinariamente vivi perché sono morti in un certo modo. È questa la loro più sbalorditiva (e pericolosa) vittoria sulla morte.
Quando lo spingono verso la botola pronuncia la "chahada", la professione di fede musulmana. La botola si spalanca. Primo piano di due minuti e 38 secondi di agonia. Uno dei boia urla: «Nessuno lo stacchi, deve restare appeso per otto minuti...».
Il giorno dopo un pick up portò il cadavere a Aujia, vicino a Tikrit, in un piccolo mausoleo che era stato trasformato in tomba. Gli americani avevano consentito che vi fossero già sepolti i due figli di Saddam caduti nella battaglia di Baghdad. Speravano, invano, che il padre mosso da pietas funebre uscisse dal suo nascondiglio. Ressa, molti prudentemente a viso coperto con le kefiah, uno sceicco regola il tumulto, invita alla austerità della preghiera. Gli americani erano ovunque ma si tennero nascosti. Con le tenebre risuonarono le raffiche di mitra del saluto funebre, e le grida: Saddam, ti vendicheremo, gli americani la pagheranno.
Si diffuse la voce che i parenti dei due generi che il dittatore aveva fatto eliminare avessero trafugato la salma per darla in pasto ai cani. Fu necessaria una smentita governativa. Bush rimproverò agli alleati la mancanza di "dignità" di quella esecuzione così sconciamente filmata. Il premier iracheno Al Maliki replicò: siamo stati anche troppo pietosi, Saddam non aveva diritto neppure a un processo.
Era già pomposamente in vigore il dopo Saddam: annunciato come l’avvento dell’evo democratico e del medio oriente americano costruito a misura delle necessità dello Zio Sam, in particolare come scudo contro l’intatto Satana iraniano. Garantivano i due sciagurati ideologi dell’impero non più tanto riluttante, Cheney e Rumsfeld. E invece... disordine da fine del mondo, sommosse settarie e estremiste, Al Qaeda scatenata, guerriglie, imboscate, autobombe e kamikaze, carneficine inaudite di innocenti, la vergogna del lager di Abu Ghraib, cinquemila morti solo tra gli americani… La sofferenza e l’odio qui contano su una età dell’oro che continua.
L’Iraq come l’Afghanistan è stata una dura lezione di come una vittoria possa essere più pericolosa di una sconfitta: se l’accompagnano una catena di errori grossolani, l’incomprensione della realtà locale e le cattive lezioni tratte dalla storia. Ovvero i piani del dopo Saddam tracciati confidando in modo fideistico sulla presunta attrazione irresistibile della democrazia. Si utilizzarono le informazioni fornite da oppositori incompetenti e corrotti che accudivano ai loro concretissimi interessi, ovvero i 450 miliardi di dollari che hanno rubato. Si pensava che il regime fosse solo Saddam e i suoi accoliti: bastava dunque smantellare il partito Baath e l’esercito. Invece c’erano altre forze a cui il vuoto spalancato dagli americani apriva enormi occasioni. Bastava vezzeggiare le inclinazioni al fanatismo, alla intolleranza e alla vendetta contro gli invasori occidentali.
Un ufficiale di Saddam, Haji Bakr, lavorava paziente a un nuovo progetto, costruire, tra la Siria e l’Iraq, su nuove basi, impastando il fanatismo jihadista con competenze militari e criminali dei reduci del regime, la macchina sanguinaria di Saddam. Sì: il califfato è la vendetta di Saddam.