La Stampa, 30 dicembre 2021
Lunga intervista a Vincenzo Visco
Maledetta pandemia. A sentire Ignazio Visco, se non fosse per Omicron e le altri varianti possibili venture, ci sarebbe da guardare al 2022 con animo discretamente ottimista. Dice il governatore della Banca d’Italia che, a livello europeo, sull’inflazione «siamo attenti» e che «i rischi non sono solo verso l’alto»: per questo, è il messaggio, la politica monetaria della Bce resta ancorata alla continuità. Non solo. C’è «una certa dose ottimismo» per l’attuazione del Pnrr in Italia, anche perché, assicura il banchiere centrale, il Paese «ha le capacità di essere rapido ed efficiente in tutti i campi, per raggiungere una capacità di crescita dell’economia tale da più che compensare l’aumento del debito e ridurre le tensioni sociali».
Persino il rischio di instabilità politica legato alla corsa al Colle, e alle elezioni politiche che prima o poi ci saranno, non gli pare allarmante, sempre che le forze politiche comprendano l’importanza degli impegni di rilancio presi e «sappiano guardare oltre il brevissimo periodo». La convinzione è precisa, immune dallo spread che ronza intorno a quota 140. L’instabilità politica, argomenta Visco, ha avuto conseguenze sui mercati solo quando c’era confusione anche a livello europeo e «adesso ce n’è di meno». Tanto basta per immaginare un anno che potrebbe risultare favorevole. Sempre che il virus non esploda sino a limitare la mobilità e condizionare la fiducia di imprese e consumatori.
Governatore, c’è divergenza nelle politiche monetarie di Bce e Fed ed è una divergenza parallela, perché i problemi sono simili ma si manifestano in modo differente e hanno trovato soluzioni diverse. Come si spiegano le risposte che sono state date sinora?
«È vero che i problemi sono simili, ma le condizioni dell’economia e delle pressioni sul mercato del lavoro, che poi hanno conseguenze sull’inflazione, sono differenti. Negli Stati Uniti durante la crisi la disoccupazione ha registrato un rapido aumento fino a sfiorare il 15%; poi, grazie allo stimolo fiscale, è discesa a livelli quasi di "piena occupazione". C’è un effetto di domanda aggregata che da noi ancora non si manifesta».
E il mercato del lavoro in Europa?
«In Europa il tasso di disoccupazione è rimasto più o meno invariato: si è mosso molto poco l’anno scorso, grazie a misure quali la cassa integrazione. Nella discesa siamo però più lenti e le ore lavorate sono ancora più basse rispetto a prima della pandemia. I prezzi hanno subito gli effetti di natura transitoria derivanti da fattori come il costo di noli e trasporti, in forte crescita per le strozzature d’offerta a livello globale. Quando terminerà il rialzo dei prezzi energetici - che ha cause cicliche, strutturali e geopolitiche - e quando in Germania, per esempio, svanirà l’effetto dell’aumento dell’Iva, l’inflazione di fondo rientrerà sui livelli previsti nell’ultimo esercizio che abbiamo condotto nell’Eurosistema».
Quanto fa, in numeri?
«Dopo aumenti medi del 3% l’anno prossimo, ma in progressiva decelerazione, poi avremo prezzi che cresceranno poco al di sotto del 2%, quindi prossimi al nostro obiettivo».
Quindi per il 2022 possiamo aspettarci una continuità, salvo colpi di scena, nelle scelte di Francoforte.
«L’abbiamo detto esplicitamente. Ci sarà una riduzione del ritmo degli acquisti di titoli nel corso del 2022, che però non si interromperanno prima della fine dell’anno; quindi, il cosiddetto "tapering" non verrà concluso prima del 2023 e si continueranno a mantenere condizioni di finanziamento dell’economia molto favorevoli. Abbiamo anche affermato che l’aumento dei tassi ufficiali, che peraltro sono negativi, avverrà successivamente. Il motivo è legato proprio alle nostre previsioni d’inflazione e ai fattori che riteniamo prevarranno nei prossimi anni».
Com’è, a proposito, il dibattito in seno alla Bce?
«C’è divergenza nel Consiglio direttivo. Le previsioni secondo cui si scenderà al di sotto del 2% nel biennio 2023-24 sono ovviamente soggette a rischi sia verso il basso sia verso l’alto. Secondo alcuni dei miei colleghi questi ultimi potrebbero essere prevalenti. Ma occorre ragionare su almeno due dei fattori sottostanti: uno energetico, l’altro legato ai margini delle imprese e all’aumento delle retribuzioni. Ora, su queste ultime, abbiamo un’ipotesi di crescita del 3% ogni anno per i prossimi tre anni. Ricordiamoci che negli Stati Uniti le retribuzioni stanno salendo del 4% e in Europa siamo sotto al 2%, come peraltro è successo per i vent’anni passati».
E l’energia?
«Sui prezzi del petrolio, i futures indicano che sono ancora elevati, ma già in discesa rispetto ai massimi di novembre. Il gas è una questione diversa, perché c’è una componente geopolitica molto importante. Gli elevati livelli dei prezzi dell’energia fossile non possono essere compensati attraverso una riduzione per tutti, perché siamo in una fase di transizione ecologica ed energetica. Andare verso le fonti rinnovabili può comportare un aumento dei prezzi relativi. I costi eccessivi per alcune categorie, o per alcune aree dell’Eurozona, possono essere compensati con misure di carattere fiscale. Il Consiglio direttivo della Bce si dovrà interrogare a fondo sul rapporto fra prezzi relativi e inflazione assoluta».
Gli aumenti dei salari e i margini delle imprese minacciano l’inflazione?
«In questo momento non si vedono effetti di secondo impatto dai prezzi dell’energia, cui soprattutto si deve l’aumento dell’inflazione, a salari e margini, quindi resto sostanzialmente tranquillo. Io penso che i rischi siano bilanciati e non asimmetrici verso l’alto. In ogni caso, siamo tutti straordinariamente attenti a verificare mese per mese quali sono, come si muovono le determinanti dell’inflazione: mercato del lavoro, domanda, salari».
In questo scenario di evoluzione, sarebbe favorevole a rivedere gli obiettivi di politica monetaria?
«Non trovo alcun motivo per rivedere l’obiettivo (del 2%, ndr), al quale si è giunti quest’anno dopo una prolungata discussione nell’ambito del Consiglio direttivo. L’indicazione precedente, che era un obiettivo di un’inflazione inferiore ma prossima al 2%, creava incertezza. Per alcuni segnalava una propensione della Bce ad accettare con maggiore facilità un’inflazione al di sotto che non un’inflazione al di sopra del 2 per cento. Non aveva senso. Un obiettivo simmetrico contribuirà a mantenere bene ancorate le aspettative d’inflazione nel medio e lungo periodo».
Si discute sulla riforma del Patto di stabilità dell’Eurozona congelato per affrontare il Covid. Se potesse ridisegnarlo, cosa suggerirebbe?
«Già prima della pandemia c’erano critiche alla complessità del Patto di stabilità, così come all’insieme di regole di bilancio per gli Stati membri. Il punto fermo è che la sostenibilità delle finanze pubbliche in Europa e nei singoli Paesi è essenziale. Dobbiamo capire che siamo in un’unione monetaria senza essere in uno Stato federale: i singoli Stati restano responsabili per i propri bilanci ma non si deve mettere a rischio la stabilità complessiva».
Ha senso abolire i vincoli?
«No. Ha senso avere regole di riferimento e che - in determinate circostanze - possano essere discrezionalmente riviste. Non esiste il pilota automatico per risolvere problemi di sostenibilità, o di coerenza, fra i diversi obiettivi di bilancio dei Paesi di un’unione monetaria. Ma non si può non sottolineare che nel nostro caso essa ha un grave difetto: manca di una politica di bilancio comune. Non solo. Manca anche la capacità di dirigere dal centro interventi che sono di interesse per tutta la comunità. Lo sapevamo già all’inizio dell’unione monetaria. È una correzione da cui non si può prescindere».
Cosa serve?
«Due cose, per essere brevi. Da un lato, uno strumento di stabilizzazione analogo a quello messo in atto nell’emergenza pandemica. Dall’altro, una capacità di rivedere le norme e le regole del gioco alla bisogna, e qui forse occorre passare per i Trattati. Sarebbe utile una entità di finanza pubblica a livello centrale. Un Ministro, se vogliamo, dell’economia pubblica dell’Eurozona, se non della Ue, in grado di essere la controparte della politica monetaria unica.
Quale sarà l’influenza sull’Europa del cambiamento politico in Germania?
«La Bce ha svolto la sua politica monetaria in modo indipendente dal precedente esecutivo tedesco, e certo non cambieremo perché c’è un nuovo cancelliere a Berlino. Un governo si forma in modo democratico, le sue scelte vanno seguite con attenzione, ma la politica monetaria è indipendente».
Vale anche per la riforma del Patto di stabilità?
«Già il governo tedesco precedente era stato ampiamente disponibile nell’introdurre misure innovative, come il Next Generation Eu. Credo che la responsabilità di quanto avverrà sarà anche nostra, si dovrà mostrare che sappiamo usare bene i fondi europei. È nell’interesse di tutti che le capacità di ripresa e di crescita siano diffuse e ben comprese. In tal senso, il governo tedesco avrà sicuramente la stessa attenzione che ha mostrato nell’anno passato».
Le vostre previsioni per l’Italia promettono crescita per il 2022. Tuttavia, avvertite, se il Pnrr non sarà ben attuato, e se il Covid non si fermerà, andrà peggio. Quanto?
«I primi rischi in realtà sono quelli che la pandemia può far emergere, specie se la diffusione del virus fosse tale da tornare a limitare la mobilità sino a condizionare la fiducia delle imprese e dei consumatori. È difficile avere idee precise, nessuno di noi sa come andrà a finire questa storia di Omicron. Per questo le nostre proiezioni sono caute dal lato pandemia. Ma contengono una certa dose di ottimismo nell’attuazione del Pnrr».
Il Pnrr è l’asse portante della ripresa.
«L’utilizzo dei fondi è accompagnato da riforme strutturali che devono aumentare l’efficienza dell’amministrazione e della giustizia e favorire la concorrenza. Devono spingere gli investimenti pubblici, con forti miglioramenti infrastrutturali, e non solo. Gli oltre 200 miliardi di euro previsti dal Pnrr nei prossimi anni devono costituire uno stimolo anche per gli investimenti privati. Vista la situazione di depressione così lunga della produttività dell’Italia, pensiamo che questo piano possa far salire il Pil di un paio di punti percentuali già nei prossimi due anni. A una condizione: che ci sia un modo efficiente e rapido di spendere. Sarebbe una vera novità per il Paese».
Stiamo per scegliere il Presidente della Repubblica. Entro la primavera del 2023, ci sarà il voto per Camera e Senato. Quanto pesa l’incognita dell’instabilità politica sull’economia italiana?
«L’instabilità politica è un concetto complesso. Siamo in un sistema democratico e i due appuntamenti che ci attendono sono parte del normale corso della democrazia. Abbiamo subìto gli effetti dell’instabilità politica sui mercati solo in un momento nel quale c’era confusione anche a livello europeo. Ce n’è di meno adesso. Si è visto il passaggio di consegne molto semplice in Germania, nonostante il cambiamento epocale. Vedremo la Francia. L’Italia non è diversa dagli altri».
Nessun rischio? Nemmeno con lo spread in zona 140?
«C’è una condizione cruciale. Tutte le forze politiche devono comprendere che gli impegni presi sono importanti e contribuiscono a rafforzare la capacità di resistenza e di rilancio dell’economia dopo quasi 30 anni di ristagno della produttività. Per questo devono saper guardare oltre il brevissimo periodo. Ciò implica che bisogna impegnarsi per uscire da una situazione di forte ritardo sul piano tecnologico e imparare a innovare. Ci sono obiettivi da condividere indipendentemente dagli orientamenti delle forze politiche. Loro devono convincere gli elettori della propria capacità di conseguire questi obiettivi, non del loro intento di rivederli. Sono cose che vanno al di là delle scadenze elettorali».
Può non risultare facile.
«È meglio mirare a conquistare voti non proponendo di ridurre le tasse a tutti i costi, ma spendendo meglio, evitando le spese cattive, come dice il Presidente del Consiglio quando parla di debito buono e debito cattivo. In realtà, non basta parlare di debito buono, perché tutti diranno che il loro è buono. Non è così. Il debito buono è quello che si collega con un piano di ripresa, con le infrastrutture essenziali e verdi, con gli investimenti nel digitale, e via dicendo. Non è un problema di stabilità politica, ma di obiettivi».
Sta dicendo che, mai come oggi, pensare "a breve" è fuori dal tempo?
«Certo. Eppure, non vuol dire che la politica debba essere assente. Non c’è stata supplenza al ruolo della politica, il confronto è stato continuo. Credo che non si debba tornare alle pratiche di tutti questi emendamenti al bilancio pubblico volte ad aggiungere nuove spese, qui o là. La spesa è una questione di qualità e bisogna essere capaci di tagliare laddove, alla fine, fra costi e benefici ci sia una prevalenza dei primi. È questo l’esercizio cruciale che dobbiamo essere in grado di comunicare».
Si può fare?
«Bisogna capire che se questa è la via, non c’è da aver timore di posizioni avverse da parte dei mercati. Spesso si sente dire che è colpa dei mercati se dobbiamo compiere scelte anche gravose. Non è così. Chi opera sul mercato cerca di investire il risparmio raccolto e vuole avere la garanzia che la scelta sia produttiva e renda».
C’è una lezione della pandemia? Ci sarà la famigerata "nuova normalità"?
«La "nuova normalità" va capita, non è un fatto banale. Nell’ultimo anno si sono verificati cambiamenti straordinari. Il lavoro agile, ad esempio, ha aperto delle straordinarie opportunità, ma non va preso come alternativa assoluta al lavoro in presenza, agli scambi di informazioni e capacità legati al contatto diretto. La pandemia ci ha impartito diverse lezioni. La più complessa è che, nel guardare avanti e nel fare previsioni, dobbiamo superare il pensiero che domani sarà come oggi, andare oltre la convinzione che il futuro potrà essere volatile ma sostanzialmente stazionario. È un errore. Il mondo può cambiare e cambia continuamente, ci sono eventi e modalità che possono condurre a eventi non lineari. Ma abbiamo anche appreso quanto importante sia accrescere la conoscenza e quanto rilevante, rapida e produttiva possa essere oggi la trasmissione del progresso scientifico».
Report ha lavorato sulle irregolarità che alcune banche avrebbero compiuto nel suggerire l’acquisto di diamanti ai clienti. Avete definito l’inchiesta "lacunosa". Davvero?
«Non è solo lacunosa. È erronea e fuorviante, anche perché basata su registrazioni effettuate a insaputa degli interessati, tagliate così da offuscare il contesto e rovesciarne il significato. Vi sono poi state illazioni assolutamente fantasiose e offensive».
I controlli sono stati adeguati?
«La legge è chiara: la Banca d’Italia vigila sulla correttezza delle operazioni bancarie, la Consob sugli investimenti finanziari, mentre questa attività sui diamanti, che avvenga dentro o fuori le banche, è una pratica commerciale, la cui responsabilità ricade sull’Agcm, che ha in effetti comminato pesanti sanzioni alle banche interessate».
E voi?
«Preoccupati dei rischi legali e reputazionali degli intermediari, dopo aver esserci coordinati con le altre autorità siamo intervenuti più volte, anche con comunicazioni alle banche. A seguito di un’ispezione antiriciclaggio, questa sì materia di nostra competenza, abbiamo irrogato una forte sanzione a una banca per la quale erano emerse gravi carenze in questo ambito. Abbiamo inoltre dato massima collaborazione all’autorità giudiziaria. E non vi è stata nessuna pressione né dall’interno né dall’esterno».