La Stampa, 30 dicembre 2021
Israele, laboratorio globale per il Covid
L’aeroporto Ben Gurion è spettrale: metallo luccicante alle pareti e lungo le passerelle mobili, pavimenti di moquette che amplificano il silenzio. Al controllo passaporti il vuoto trasporta il viaggiatore in una dimensione spazio temporale incredibile per chiunque sia mai stato qui prima, schiacciato in mezzo a una umanità variegata e assiepata a qualunque ora del giorno o della notte. Arrivare in Israele in questi mesi di pandemia è davvero un’esperienza straniante, ma anche molto eloquente: fa toccare con mano tutta l’anomalia del momento che stiamo vivendo ovunque nel mondo. Eppure è anche un’occasione unica per andare al cuore di questo paese così complesso, inafferrabile e non di rado contraddittorio. È come se l’emergenza avesse portato allo scoperto la fibra esistenziale più vera e profonda – di qui, e forse anche del resto del mondo.
L’unico scalo internazionale di Israele, infatti, è da sempre molto di più di un aereoporto: è l’unica porta di uscita e ingresso di un paese più piccolo della Lombardia e accerchiato da confini pressoché invalicabili – per larga parte della sua esistenza fronti di guerra. Il Ben Gurion è di fatto l’antidoto a una claustrofobia endemica per quanto latente. Trovarlo deserto con l’eco ovattata dei passi che si frange nel silenzio fa un effetto strano, un misto di sorpresa, paura, incredulità. Ma poi tutto si spezza all’ultima tappa del percorso obbligato che conduce dal finger alla sala del covid test, obbligatorio per tutti (i pochissimi) passeggeri in arrivo: non si esce dallo scalo se non con un braccialettino di carta che attesta l’avvenuto tampone.
Israele è in quest’ultimo anno diventato un paese molto diverso da quello che era prima. Non in sé e per sé, ma nella percezione che ne aveva il resto del mondo. Da territorio di un conflitto inguaribile e stagnante, da oggetto di sentimenti radicali o di odio o di amore senza mai mezzi termini, con la pandemia è diventato un modello, il luogo dove tutto avviene prima che altrove e verso il quale sono puntati gli occhi di tutto il mondo.
Se non che, appena usciti dallo scalo internazionale e lasciate alle spalle le immancabili peripezie di una sfiancante gimcana fra tamponi, moduli da compilare, documenti da avere sotto mano in carta o digitale, la sensazione è quella di precipitare in una specie di normalità tutta da esplorare.
In parole povere e nonostante Israele sia il laboratorio globale della pandemia, di virus qui si parla decisamente meno che da noi. È come se gli israeliani faticassero a rinunciare a quella normalità esistenziale cui sono arrivati dopo duemila anni di una storia a dir poco travagliata. Tel Aviv è sempre più cara e caotica che mai, con i grattacieli che vengono su nello spazio di una notte e i cantieri per l’ambiziosa metropolitana leggera che in attesa di diventare la spina dorsale lungo l’asse produttivo del paese sta mettendo sottosopra il traffico urbano oltre alle viscere sabbiose di questa città vecchia poco più di cent’anni. Qui, insomma, il Covid non sembra aver neanche scalfito l’ottima salute dell’economia.
La nuova normalità israeliana è fatta anche di piccole e grandi scoperte: qui Natale è un giorno feriale uguale a tutti gli altri, ma a Jaffa campeggia un monumentale pino addobbato che non ha nulla da invidiare a quelli delle nostre grandi città. E siccome non si può andare all’estero perché le frontiere sono praticamente chiuse tanto in ingresso quanto in uscita, molti hanno optato per un turismo di prossimità che spazia dal lago di Tiberiade al deserto del Sud, ma si orienta soprattutto su luoghi che offrono «particolari» attrattive in questo periodo. Nazaret (entro la linea verde dei confini del 1948 sanciti dall’Onu) e Betlemme (oltre la linea verde, nei territori occupati nel 1967) sono state le mete più gettonate dagli israeliani ebrei sotto Natale. «Perché c’è un’atmosfera esotica» (cioè natalizia…), «perché sembra di andare lontano», con le botteghe aperte, i simboli della Natività, le luminarie. Una gita fuori porta in tutti i sensi, insomma, per quell’80 per cento di israeliani di identità ebraica.
La normalità dentro la pandemia sta in Israele anche nel fatto che il covid è meno invasivo che da noi sui media. Certo, c’è. Ma i titoli di testa in questi giorni sono occupati da una sequenza di scandali a sfondo sessuale: il ginecologo della buona borghesia telaviviana che visitava le pazienti in senso molto lato – e ravvicinato. Il rabbino, maestro e comunicatore, un ortodosso dalla faccia simpatica e l’aria gioviale che si è tirato un colpo di pistola qualche giorno fa perché accusato di decine di abusi e violenze sessuali su minori.
E come sempre la normalità è fatta anche del parlare male del governo. A prescindere: come dice A.B. Yehoshua, in Israele ci sono almeno tre primi ministri ad ogni fermata dell’autobus, che (secondo loro stessi) saprebbero mandare avanti il paese molto meglio di quanto non stiano facendo i politici al potere (a prescindere dal colore che hanno). È pur vero che qui la politica si è distinta per un decisionismo da primato: i primi a vaccinare al mondo, i primi a lanciare gli hub, le terze dosi, ora le quarte. Riunioni serrate, provvedimenti presi a tempo di record. Ma anche l’opposto: approssimazioni, marce indietro, incertezze. Tutto convive in nome di un’indifferenza al principio di non contraddizione che sta dentro il Dna del popolo ebraico. Il 20 dicembre, con la superdiffusione di Omicron all’orizzonte, Israele ha dichiarato «rosso» mezzo mondo: nessuno, né con passaporto israeliano né con passaporto straniero, poteva più entrare o uscire da un paese rosso se non dietro una richiesta diretta al governo (ne sono arrivate circa sedicimila in poche ore, a un ufficio che conta una manciata di addetti). Levata di proteste: ma come, questo paese che nasce come àncora di salvezza per gli ebrei del mondo ora chiude le porte così, da un giorno all’altro? Appena qualche giorno dopo il governo fa marcia indietro e da settanta i Paesi rossi diventano quindici. Decisionismo, dunque, ma anche una buona dose di approssimazione, di vivere – e legiferare – alla giornata.
E così, fra un provvedimento e l’altro, in nome di una strabiliante ironia della storia, può capitare di imbarcarsi allo scalo di Tel Aviv su un volo per Vienna (l’Austria è sempre rimasta «arancione») pieno di israeliani in vacanza, con l’aria rilassata di chi ritrova finalmente una libertà, quella di viaggiare, tanto cara quanto perduta, proprio nel paese che ha dato i natali a Hitler…