la Repubblica, 29 dicembre 2021
Archeologia minima del nostro passato prossimo
Ogni oggetto ha una storia, una piccola anima che racconta. E dietro l’oggetto c’è sempre una persona. In questo incredibile anno di sport ne abbiamo incontrati molti, un po’ totem, un po’ feticcio o forse post-it. Alcuni fanno già parte dell’archeologia minima del nostro passato prossimo. E diventeranno memoria collettiva. Riguardiamoli insieme.
Il gesso di Gimbo. Quasi un tutore dello spirito più che del corpo, il gambaletto di Gianmarco Tamberi. Prima della finale olimpica del salto in alto, un cielo che lo sport azzurro non era mai riuscito a sfiorare a livello maschile, Tamberi ha appoggiato il suo gesso del dolore con la scritta “Road to Tokyo” sulla pista. Forse è stato proprio quell’oggetto a dargli la spinta che comincia dalla sofferenza e finisce nel sogno. Sempre più in alto.
I ferri di Tom. Siamo ancora a Tokyo2020, e un ragazzo sferruzza sulla tribuna della piscina. Si tratta di Tom Daley, tuffatore sublime e bricoleur appassionato di punto croce. Roba da femmine? Che sciocchezza. Tom crea cose, e alcune le mette all’asta a scopo benefico. Oltre la barriere di genere. Quei due ferri, diritto e rovescio. Soprattutto diritto.
Lo skateboard di Momiji. Vincere una medaglia d’oro a tredici anni, vincerla da ragazzina giapponese in Giappone. La tavola a rotelle di Momiji Nishiya è verde e fucsia, un po’ sporca sotto, molto vissuta. Soltanto lei ha vissuto così poco finora, nei suoi tredici anni per arrivare lassù, dove più in alto per un atleta non esiste niente. E adesso?
Il gonnellino di Pita. Lui è il colosso di Tonga che nelle cerimonie olimpiche sfila tutto unto come un branzino. Si chiama Pita Taufatofua, quasi nudo a parte il gonnellino, il “ta’ ovala”. Eliminato subito nel taekwondo, ci riproverà ai prossimi Giochi invernali, se si qualifica (è anche un fondista). Di solito sfila seminudo anche tra i ghiacci.
La mascherina di Antonaeta.
Verde, con una lacrima a brillarci sopra come un diamante. Il pianto mascherato ma non troppo di Antonaeta Kostadinova, argento olimpico nella pistola da 10 metri, è stato più forte del Covid.
Il costume di Chanyon. Lui sarebbe un cavallo, e si è molto spaventato durante il torneo di equitazione a Tokyo perché, accanto a una barriera del salto, avevano messo la statua di un lottatore di sumo. Per la gioia di Chanyon e degli altri valorosi quadrupedi, il bestione in costume è finito presto in un armadio.
Il distintivo di Bao e Zhong.
Vincere un oro nel ciclismo su pista, salire sul podio col distintivo di Mao sulla tuta, ricevere il richiamo ufficiale del Cio (vietatissimo, da sempre, ogni riferimento politico anche remoto). È la storia delle pistard Bao Shanju e Zhong Tianshi, che quel “pin” se l’erano messe per rispondere alla “ics” fatta con i polsi da Raven Saunders, pesista statunitense, lesbica, che sul podio aveva protestato il quel modo mentre ascoltava l’inno cinese della vincitrice.
Il fiore di Antonella. L’aveva fatto all’uncinetto la mamma di Antonella Palmisano, e lei l’ha portato fino all’oro nella marcia, una delle nostre più belle medaglie a Tokyo. La margherita, e anche la bandiera tricolore caduta e raccolta prima del traguardo. Oggetti di un giorno meraviglioso.
Il tubo sonoro di Lorenzo. Ci ha giocato, Lorenzo Insigne, facendo il verso a Frank Matano, ma andatelo a dire al suo compagno di stanza, Ciro Immobile. «Quel coso è un’ossessione, non lo sopporto più!»
La coppa di Giorgio e Leo. D’argento, lucente e panciuta: Chiellini e Bonucci se la sono portata a letto dopo la vittoria di Wembley, una citazione con dedica per Fabio Cannavaro che il suo trofeo, però del mondo, l’aveva messo sul cuscino nel 2006.
La bici di Filippo. Alzata al cielo come un fuscello da Filippo Ganna dopo il trionfo nell’inseguimento a squadre a Tokyo, e poi di nuovo sul traguardo del mondiale a cronometro in Belgio. Il corridore più veloce del pianeta e la sua bici volante.
Il cappellino di Jannik. Il fuoriclasse bambino Sinner lo mette sopra i capelli rossi, come una vecchia “burba” da caserma, con la visiera in avanti un po’ piegata. Invece Berrettini lo gira sulla nuca, come un antico gregario ciclista. O come Lendl, che ci metteva un fazzoletto bianco da legionario. Scelte di testa, di moda, forse anche di sponsor.
Il caschetto di Sonny. Infangato come lui, del colore della pietra e del carbone che riempie l’aria di Roubaix dove Sonny Colbrelli si è portato a casa la corsa più bella d el mondo, e il suo leggendario trofeo: un cubo di pavè. Da 22 anni un italiano non ci riusciva.
L’elmo di Lewis. A suo modo una vittoria, per una volta non nel mondiale di F1 ma contro le discriminazioni di genere. Questa, la scelta di Lewis Hamilton per il suo casco arcobaleno: chapeau.
Lo smartphone di Paola. Troppi selfie e poche schiacciate: così dissero di Paola Egonu e delle pallavoliste azzurre, dopo la delusione olimpica. E lei cosa combina? Vince l’Europeo poche settimane più tardi, e si fa un bel selfie di gruppo.
La manica di Bebe. Vuota, un po’ penzolante perché il braccio destro non c’è. Ecco Bebe Vio mentre vince l’ultimo dei suoi ori, a Tokyo. Ancora una fotografia a scavarci dentro per dirci cose che di noi non sappiamo: ciò che saremmo, ciò che potremmo essere se solo volessimo.
Il fazzoletto di Leo. Tutta scena? Ma no. Contano soltanto i soldi? Ma va’. Conferenza stampa di commiato di Leo Messi dal Barcellona, dove arrivò bambino e aspettò che il suo tempo e il suo corpo prendessero forma per fare di lui una meraviglia. Prima della prima parola, Leo già piange. Il kleenex bianco assorbe non solo le lacrime, ma tutto ciò a cui un giorno si dice addio.