la Repubblica, 29 dicembre 2021
Intervista ad Anish Kapoor
Anish Kapoor si addentra nell’oscurità misteriosa dell’essere fino a quando dal vertiginoso buio appare una forma. È l’embrione di quella che diventerà l’opera d’arte, frutto di un’intuizione che emerge all’improvviso da una costante pratica di esplorazione dell’ignoto. Negli ultimi anni la ricerca dell’artista si è intensificata con l’utilizzo del nero più nero esistente, il Vantablack. Oggi Kapoor, classe 1954, nato in India e cresciuto in Inghilterra, lancia una provocazione. «La luce è importante, ma come artista mi interessa il buio e con questo nero propongo di superare l’essere» ha detto in occasione dell’annuncio della sua futura mostra con una cinquantina di opere celebri e opere nuove, in particolare dipinti. L’esposizione, a cura di Taco Dibbits, si terrà dal 20 aprile al 9 ottobre 2022 a Venezia, alle Gallerie dell’Accademia e a Palazzo Manfrin, oggi sede della Fondazione Anish Kapoor e un tempo di un’importante collezione da cui provengono 21 dipinti delle Gallerie, come La tempesta di Giorgione.
Come mai Venezia?
«Perché è una città dell’oscurità e del buio dove scorre un’acqua materna, nel senso freudiano del termine, e dove Oriente e Occidente, miticamente, si incontrano. È una città di nebbia e di malinconia e mi fa pensare a Visconti e alla dicotomia tra ciò che è presente e ciò che è assente, proprio quello che mi interessa come artista».
L’oscurità quanto fa parte del processo creativo?
«Come artisti non abbiamo altra scelta se non di guardare nell’oscurità. Se Platone nel mito della caverna racconta di come gli uomini si evolvano scoprendo la luce, Freud invece ci intima di guardare nella profondità della caverna, dove ci sono l’oscurità, il buio, il terrore.
L’oscurità, la grande intuizione dello psicoanalista viennese, è il luogo che l’artista deve esplorare.
Penso a Tiziano e alla sua abilità a realizzare opere proprio entrando in questa oscurità che si percepisce ed è presente anche nei suoi dipinti, per esempio ne La punizione di Marsia. L’artista entra nell’oscuro e cerca di far apparire le cose e questo atto ha qualcosa di magico proprio perché emerge una forma dal buio, dalla profondità».
E la malinconia?
«È un concetto poetico fondamentale perché indica uno stato sospeso, ma anche la consapevolezza di qualcosa di ineluttabile, come racconta la Madonna col Bambino di Alvise Vivarini che tiene il suo piccolo in braccio, sapendo il destino che lo attende. Direi quindi che la malinconia è l’oggettivazione di tutto l’irrisolto».
Come nascono le sue opere?
«Facendo pratica, sempre. Credo che il modo migliore per arrivare all’idea che diventerà un’opera sia quello di fare. Ogni giorno vado in studio e lavoro a partire da un’idea, qualsiasi idea. Il mio vero lavoro è esplorare quello che non so. Non posso dire oggi faccio questo o quello, ma posso però avere la volontà di fare pratica, come una preghiera, costantemente e a ripetizione fino a quando qualcosa mi colpisce e dico: che cos’è questo? da dove viene? Questo processo è molto importante, ma richiede dei tempi lunghi».
Ci può fare un esempio?
«Certo… l’artista è in un certo senso un idiot savant. Anni fa mi venne l’idea di mettere in una stanza un cannone che sparava verso un angolo. Non so dirle da dove mi venne questa idea, ma mi era arrivata e siccome sono uno studente diligente, l’ho messa in pratica con serietà. Mi sono procurato un cannone, l’ho messo in una stanza e ho sparato verso l’angolo proiettili da 20 chili di cera rossa e boom! Mentre lo facevo pensavo: ma cosa sto facendo!? Poi ho realizzato che stavo mettendo in scena un violento psicodramma dove c’erano La fucilazione di Goya e l’action painting di Pollock, lo smembramento dei corpi e tanto altro, eppure tutto questo era venuto fuori da una stupida azione, anche se in realtà si è rivelata un’azione serissima».
Lei si è descritto come uno scultore che è un pittore. In che senso?
«C’è una relazione molto particolare tra immagine e oggetto, tra quello che è fisico e quello che non lo è. Per esempio, questo corpo (indica il suo, ndr ) descrive me, ma non appena chiudo gli occhi sono altrove, in uno spazio diverso.
Quindi l’oggetto non è solo fisico e nemmeno solo un pensiero dell’intelletto. I miei primi lavori erano fatti di pigmento, cioè di materia fisica come argilla e pietra, ma il pigmento ha anche un’alterità trasmessa dal colore. Il colore ha un qualcosa di onirico che sta tra lo spazio fisico e non fisico.
In questo senso mi vedo come uno scultore che è un pittore».
E il tempo?
«Il tempo è profondamente misterioso. Uno dei miei dipinti preferiti è la Discesa al Limbo di Mantegna. Si vede Cristo con un bastone che si accinge a inoltrarsi in una caverna oscura. È in una posizione di attesa, sospeso nel tempo presente e nel tempo futuro, come in un doppio tempo. Molti dei miei lavori hanno a che fare con la questione del doppio. Per esempio gli specchi concavi dove lo spazio è qui, là, davanti e dietro e così il tempo che è qui, ma anche là. Non è un caso che spazio e tempo li affronti sempre insieme».
Ultimamente lavora con il nero più nero che c’è, di cui solo lei ha l’esclusiva…
«Il nero in questione, quello che assorbe il 99,96% della luce, non viene fuori da un tubetto di colore, ma da un procedimento ad alta tecnologia ed è proprio per le difficoltà nel realizzarlo che io e Ben Jensen, l’ideatore, ci siamo accordati. Da un po’ di anni gioco con l’apparire e il non apparire della pittura sull’oggetto e questo nero, più nero del nero dei buchi neri, per me è fondamentale per continuare a esplorare questo concetto e, a questo proposito, ricordo il Quadrato nero di Malevi?. Se le pieghe di un tessuto rappresentano l’essere, ricoperte da questo nero non si vedrebbero più. Quindi che cosa può proporre l’arte nell’era del post tutto? Per me questo nero propone di superare l’essere. Questa è la mia idea ed è un’idea molto seria. Non sto scherzando».