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 2021  dicembre 29 Mercoledì calendario

Una difesa dall’inflazione


Nessuno lo vuole, ma può succedere di nuovo. Dopo quasi 40 anni di quiete, da qualche mese l’inflazione sta rialzando la testa, e potrebbe non essere solo una fiammata. I fattori che spingono in questa direzione sono parecchi, alcuni temporanei, altri no. È probabilmente temporanea la pressione sui prezzi esercitata dalle strozzature della logistica, in gran parte connesse alla pandemia. Non è temporanea, invece, la pressione sui prezzi indotta dalla cosiddetta rivoluzione green : l’abbandono delle centrali a carbone, con il passaggio a fonti di energia più pulite, e l’adozione di misure di scoraggiamento delle emissioni più dannose, determinano inevitabilmente aumenti dei costi di produzione di innumerevoli beni, che si trasferiscono sui prezzi. A questi fattori si stanno aggiungendo, in alcuni paesi, aumenti dei salari nominali, a loro volta indotti dalla scarsità di manodopera, qualificata e non. Il rischio di un circolo vizioso fra prezzi e salari è tutt’altro che remoto.
Insomma, le condizioni per una ripresa non episodica dell’inflazione ci sono tutte, sia sul versante dei prezzi di beni e servizi, sia su quello della dinamica salariale. È un film che abbiamo già visto negli anni ’70 e ’80. E, anche allora, la miccia fu una crisi energetica, in quel caso indotta da ripetuti aumenti del prezzo del petrolio. Chi è sufficientemente vecchio per aver vissuto quegli anni ricorderà le due crisi del petrolio (1973 e 1979), le domeniche a piedi, gli inviti a fare sacrifici, i discorsi di Enrico Berlinguer sull’austerità, gli scatti della scala mobile, le trattative con i sindacati per rompere il circolo vizioso fra prezzi e salari, il referendum del 1985 sulla scala mobile promosso (e perso) dal Partito comunista, i negoziati governo-sindacati-Confindustria, fino all’accordo sul costo del lavoro del 1993, che chiuse definitivamente una stagione durata vent’anni.
Oggi, però, forse abbiamo un vantaggio: possiamo fare tesoro dell’esperienza di quegli anni. Ma come? Cercando di risolvere il puzzle dell’inflazione in un modo diverso da quello di allora. Negli anni ’70 la risposta all’inflazione fu la messa a punto di un meccanismo, quello del “punto di contingenza”, che produceva due effetti distinti: un aumento costante ed automatico dei costi di produzione delle imprese, e un progressivo appiattimento delle differenze salariali, con vantaggi per i salari bassi e svantaggi per quelli alti. La giusta esigenza di proteggere il potere di acquisto dei lavoratori veniva così a combinarsi con una dannosa pressione sui costi delle imprese, e di lì sulla competitività delle nostre merci sui mercati internazionali. Di qui le continue svalutazioni della lira, cui era affidato il compito di proteggere le nostre imprese dalla concorrenza internazionale.
Oggi questa via è impraticabile, se non altro perché – con la moneta unica – non possiamo più usare la svalutazione per neutralizzare gli effetti della spirale prezzi-salari. Oggi dobbiamo trovare un modo di proteggere, simultaneamente, il potere di acquisto dei salariati e la competitività delle nostre imprese.
Questo modo esiste, ma richiede una sorta di rivoluzione copernicana nelle priorità della politica fiscale. Anziché brandire il fisco come arma politica, usata dagli uni per “far piangere i ricchi” e dagli altri per appiattire indiscriminatamente il prelievo ( flat tax ), forse dovremmo adattarci a un uso dell’arma fiscale più sobrio e pragmatico. Il che significa almeno due cose. Primo, neutralizzare gli aumenti dei prezzi con riduzioni annuali delle aliquote, in modo da compensare il fiscal drag e mantenere (almeno) costante il potere di acquisto dei salari. Secondo, ridurre drasticamente la selva di tasse, accise e balzelli che rendono proibitivi i costi dell’energia in Italia. Solo così possiamo evitare di innescare una rincorsa fra prezzi e salari che, con la moneta unica (e la conseguente impossibilità di svalutare), finirebbe per mettere fuori mercato una parte delle nostre imprese, con pesanti ricadute sull’occupazione e sulla dinamica del Pil.
Certo, questo modo di pensare il fisco comporta dei costi (sotto forma di risparmi di spesa, o reindirizzo delle risorse europee), nonché la rinuncia a convogliare il grosso della politica fiscale verso la tutela degli interessi di specifiche categorie, come finora è sempre stato. Ma l’alternativa è un ritorno ai meccanismi degli anni ’70, senza il fondamentale ombrello della svalutazione. Un lusso che, temo, l’Italia di oggi non si può permettere. www.fondazionehume.it