La Stampa, 29 dicembre 2021
Putin vuole tornare al 1985
Ksenia Fadeeva è stata trascinata nell’aula del tribunale in manette, una ragazza minuscola chiusa dai poliziotti in una gabbia per sentirsi dire che rischia fino a 12 anni di carcere per «organizzazione di comunità estremista con l’utilizzo della posizione ufficiale». Ksenia guidava la cellula dei sostenitori di Alexey Navalny a Tomsk, la città siberiana dove è stato avvelenato nell’agosto del 2020. La “posizione ufficiale” grazie alla quale avrebbe propagato “estremismo” è quella di deputato del consiglio regionale, dove è stata eletta grazie alle denunce della corruzione delle autorità locali. Il suo collega di opposizione, il deputato Andrey Fateev, ha lasciato la Russia per non venire arrestato.
Zakhar Sarapulov è stato fermato a Irkutsk: aveva fondato un sito sul quale denunciava la corruzione e criticava il comportamento delle autorità nella pandemia. Non potrà usare Internet e incontrare nessuno che non sia un familiare, in attesa del processo per estremismo, stessa misura scelta dai giudici per Ksenia e per altri attivisti arrestati a Barnaul, Engels, Arkhangelsk.
Abubakar Yandulbaev, coordinatore del “Comitato contro le torture” nel Caucaso, è stato sequestrato dalla polizia per ore per un “interrogatorio” senza avvocato. Pochi giorni prima aveva dichiarato che dopo le sue rivelazioni sugli abusi della polizia quaranta suoi parenti erano diventati “desaparecidos” in Cecenia.
Yuri Dmitriev, storico e attivista di Memorial che lavorava per identificare le vittime e i carnefici del terrore staliniano, si è visto incrementare la condanna per presunti “atti di pedofilia” da 13 a 15 anni di carcere.
Evgeny Roizman, ex sindaco di Ekaterinburg e unico oppositore ad aver guidato una grande città negli ultimi vent’anni, è stato avvertito di un imminente arresto. Ha reagito partecipando a una asta di beneficienza.
OVD-Info, l’Ong che offre assistenza legale agli arrestati per motivi politici, ha lanciato una petizione contro l’oscuramento del suo sito e delle sue pagine social, dopo essere stata censurata dal governo per “sostegno al terrorismo e all’estremismo”, senza nemmeno la decisione di un giudice.
Questo è accaduto in Russia nel giro di appena 24 ore. 24 ore qualunque, prese a caso, uguali a tanti altri giorni, se non fosse per la sentenza della Corte Suprema della Federazione Russa che ha liquidato Memorial. La più vecchia Ong russa, fondata da Andrey Sakharov, e messa al bando nel centenario della sua nascita. Un monumento vivente a un premio Nobel per la pace, ma il Cremlino è rimasto sordo alla sua memoria, come alle suppliche di altri due Nobel, Gorbaciov e Dmitry Muratov. Meno che mai si è fatto commuovere da decine di appelli, di governi, intellettuali, attivisti e comuni cittadini, inclusi quei milioni di russi ai quali Memorial aveva restituito la dignità della memoria dei loro genitori e nonni inghiottiti dal Gulag. È anche questo è un messaggio: il sistema non riconosce i dubbi, non ammette gli errori e non fa marce indietro. Non si blocca di fronte a una deputata legittimata da migliaia di voti, né a una reputazione internazionale confermata da riconoscimenti prestigiosi, né alla stima di milioni di cittadini, né al clamore mediatico: equipara il fermarsi a una debolezza.
I rinvii della sentenza su Memorial fanno intuire che sia stata un vero Rubicone perfino per l’élite putiniana. I falchi hanno però avuto la meglio, come sempre negli ultimi anni in Russia, che ormai appare governata dalla polizia e non più dalla politica, 69 anni dopo che la morte di Stalin aveva istituito un tabù condiviso a lungo da comunisti e postcomunisti: non dare troppo potere agli “organi di sicurezza”, indipendentemente dal nome che portano.
È la conclusione di una regressione iniziata molti anni fa, e accelerata drammaticamente: in meno di un anno, iniziato con l’arresto di Alexey Navalny, la Russia si è trasformata in una dittatura. Chiunque si chiedeva come fosse stato viverla, negli Anni 30 per esempio, può seguire il processo in tempo reale. E Memorial, l’organizzazione che si era dedicata a tenere viva la memoria delle vittime del Gulag, non poteva non essere una vittima simbolica: nella sua arringa il procuratore ha accusato l’Ong di «difendere i traditori della patria» e di «screditare la nostra Storia». Cioè lo stalinismo, il fantasma mai esorcizzato del Cremlino. Quello contro Memorial è stato un processo alla Storia, ordinato da una classe politica che vorrebbe far correre l’orologio all’indietro: non al 1997, prima dell’allargamento della Nato, come chiede Putin nel suo recente ultimatum, non al 1991 quando è collassata l’Urss, come chiede Putin quando rivendica l’Ucraina come suo protettorato, ma al 1985, prima che Gorbaciov condannasse il comunismo sovietico e ponesse fine alla Guerra fredda. —