La Stampa, 29 dicembre 2021
Vite degli afghani in Qatar
Dentro il campo a cinque stelle l’ordine arriva molto prima della malinconia e la disperazione sembra lontana eppure questo irreale villaggio, destinato ai tifosi durante i prossimi Mondiali di calcio, è un corridoio tra la paura e l’ignoto, un tempo sospeso per gli afghani e soprattutto le afghane che transitano in Qatar, unica via di fuga rimasta.
Ahmed gonfia il pallone per il torneo del pomeriggio. Chi arriva qui, dopo la quarantena, entra in un mondo fatto di attività di ogni tipo: classi di pittura, teatro, clown per i ragazzini, concerti. Il ritmo di una località di villeggiatura senza la più remota idea della vacanza. Fino a qualche settimana fa gli alloggi erano pieni, ora ci sono meno di 200 persone perché è sempre più difficile far uscire dall’Afghanistan chi è in pericolo. Chi riesce riparte da un pacco base che viene fornito gratuitamente dall’emporio al centro del villaggio e dai pasti garantiti. Permaz vorrebbe un paio di sandali, ma non ci sono della sua misura, «Pazienza», si liscia l’abaya, la tunica che porta, capo coperto e volto libero. Gioca a basket o per lo meno giocava, è lì, come molte altre, grazie alla Fifa che fa da ombrello a tutte le federazioni sportive e coordina un piccolo esodo sempre più complicato. Permaz aspetta la prossima destinazione, chiunque passi per questo campo ne ha una, per avere l’aiuto del Qatar è necessario provvedere ai documenti utili per entrare in un altro Paese. Permaz conosce il suo futuro indirizzo, ma ci spiega che «queste sono cose di cui parlare con mio marito». Lasciare l’Afghanistan non vuol dire lasciare le sue regole, non basta attraversare un confine e nemmeno sono bastati gli anni di relativa indipendenza, neanche per una donna tanto giovane. Lei qui è tornata a far rimbalzare un pallone e sua figlia passa le ore al nido, travolta dal dinamismo di Umanga, educatrice dello Sri Lanka che organizza feste di compleanno: «Abbiamo trovato anche i palloncini. Qui i bambini disegnano, giocano, imparano a stare sereni».
A capo dell’operazione Fifa c’è Joyce Cook, responsabile del dipartimento più delicato, impegni sociali e umanitari, l’ufficio equilibrio. E persino questa donna da anni impegnata a raddrizzare serissimi guai è provata da mesi di contatti con cui cerca di reggere fili fragilissimi: «Un’esperienza drammatica, ci ritroviamo spesso con messaggi che non abbiamo più la possibilità di identificare come affidabili. Diciamo ai nostri agganci di stare pronti e poi passano settimane, senza notizie, è penoso». All’inizio c’erano 641 persone su una lista già ridotta al minimo, il primo elenco partenti ha superato i 100 posti, l’ultimo era di 7, più che altro ricongiungimenti familiari tracciati con cura, attenzione e tenacia. Sul volo partito da Kabul e atterrato a Doha a fine novembre c’era un bambino di 18 mesi che aveva smarrito i genitori, ora è con la madre: «Sono i momenti di emozione che ci fanno andare avanti ma poi si lotta contro il senso di colpa e contro il tempo. Molte giovani calciatrici sono rintanate con le famiglie senza più cibo o medicine. Il Qatar si è preso grosse responsabilità, ormai sono l’unico partner sicuro». C’è chi rischia per le vie di terra e poi viene ricattato, rispedito indietro, consegnato. Restano 367 nomi da far espatriare e solo 185 passaporti pronti. Ogni Paese, Italia compresa, ha aiutato prima le persone che orbitavano intorno alle missioni occidentali. Il presidente della Fifa Infantino ha trovato un appoggio in Albania dove adesso c’è una base con 156 rifugiati, anzi 157 perché è nato un bimbo in questi giorni: «Sono fantastici, ci hanno detto, “sappiamo che cosa vuol dire scappare in massa”. Altre nazioni hanno manifestato l’intenzione ma poi…”. Poi la lista è difficile da aggiustare.
Il camp a cinque stelle si svuota di persone e speranze. Raggiunta quota 367 questa operazione finisce e Cook sospira, «è devastante, però è pure il nostro massimo. E la pandemia non aiuta». Pure chi ha il nome sulla lista che si sgrana passa attraverso l’incertezza. Servono i militari del Qatar per l’estrazione e un garante per il viaggio, un ponte con la nuova destinazione, la Fifa sostiene i fuoriusciti con 2000 dollari al mese fino a che non sono in grado di ripartire «anche se le ragazze vogliono tornare, non si immaginano in esilio, ma temporaneamente lontane da una patria che sognano di nuovo vivibile. Anche per una sedicenne che gioca a calcio, per adolescenti si sono lasciate solo tragedie alle spalle». E solo un pallone, adesso gonfio, davanti.