La Stampa, 29 dicembre 2021
La salita al Colle di Berlusconi
Silvio Berlusconi ci spera davvero. A otto anni dalla decadenza da senatore dopo una condanna per frode fiscale, otto anni dopo quella convulsa giornata di novembre 2013 che lui e i suoi fedelissimi si sono sempre ostinati a considerare un’ingiustizia, l’ex Cavaliere medita di prendersi la più gigantesca delle rivincite: l’elezione a presidente della Repubblica. Sono settimane che se ne parla, e più passa il tempo più quello che all’inizio pareva un ballon d’essai prende la forma di un’ipotesi reale. E, di conseguenza, di un enorme ostacolo sulla strada di qualsiasi accordo.
Se ne sono resi conto gli alleati di centrodestra, convocati a Villa Grande l’antivigilia di Natale, all’indomani della conferenza stampa di Draghi che ha chiarito la disponibilità del premier al Colle: chi tra loro ancora credeva che il fondatore di Forza Italia giocasse un po’ a prendersi la scena prima di mettere un altro nome sul tavolo, ha dovuto ricredersi. «Ho i numeri, mi posso permettere anche qualche franco tiratore nel centrodestra. Non possono dirlo pubblicamente, ma ci sono parlamentari del Pd e del M5S disposti a votarmi, sono già sopra i 505 voti», ha accolto i commensali sbalorditi evocando il quorum dalla quarta votazione in poi. A nulla è servita la domanda della realista Giorgia Meloni – «Va bene, Silvio, ma se invece i numeri non ci fossero, che si fa? Mi garantisci che la coalizione di centrodestra resta unita, che si decide insieme, che non fai un accordo col Pd?» -, perché l’ex premier ha sfoderato il suo sorriso dei giorni migliori: «Ho i numeri».
E così, gli alleati Meloni e Salvini, ma anche Toti, Lupi e Cesa invitati per l’occasione, si trovano ora ostaggio di una candidatura che, per quanto non ufficiale – nuovo appuntamento dopo Capodanno – è più ingombrante che mai. Perché la prima esigenza a cui devono rispondere è tenere unita la coalizione, nel caso non improbabile che il passaggio di gennaio faccia scivolare verso elezioni anticipate: sanno bene, perché lui stesso ha messo le cose in chiaro, che impallinarlo nell’urna modello Prodi 2013 sarebbe il suicidio di uno schieramento intero. E allora provano con le buone a convincerlo di quanto sia difficile avere i numeri; la leader di Fratelli d’Italia più volte ha buttato lì che sì, certo, Berlusconi è un bel candidato ma «bisogna vedere se ci sono i numeri perché quelli del centrodestra non bastano», pure Toti in un’intervista dopo l’incontro parlava ancora di necessità di «capire quale sia la strategia migliore da adottare». Se non è la richiesta di un passo indietro, assomiglia molto a un auspicio. Solo che ci vuole tempo, quello che comincia a scarseggiare.Perché la candidatura Berlusconi è un macigno sulla strada di qualunque «accordo largo». Dal Nazareno, il segretario dem Enrico Letta osserva con una certa inquietudine la caparbietà con cui il leader di Forza Italia mantiene i riflettori puntati su di sé, consapevole che si tratta di una candidatura improponibile: mai il Pd potrebbe sostenere l’eterno avversario del centrosinistra unito, l’uomo con un’antica iscrizione alla P2 e il premier delle leggi ad personam, ancora a processo per il caso Ruby ter e per il caso escort a Bari, dove potrebbe essere chiamato proprio nei giorni delle votazioni, con l’accusa di aver indotto l’imprenditore Gianpaolo Tarantini a mentire sulle famose «cene eleganti». Fosse eletto capo dello Stato, il leader che definì i magistrati «mentalmente disturbati» diventerebbe presidente del Csm. «Nessun capo politico è mai stato eletto presidente della Repubblica», ricorda allora Letta – ogni riferimento è voluto – e un eventuale passaggio con il quorum minimo di 505 voti sarebbe «una grave ferita istituzionale». Una rottura della maggioranza sul capo dello Stato – cerca di sottolineare – porterebbe alle fine del governo: sperando di spaventare a sufficienza i peones preoccupati dalla fine della legislatura. E forse anche i dirigenti di Lega e Forza Italia, non così convinti di andare al voto. «Enrico pensa che la candidatura si logorerà da sola, dall’interno, a inizio gennaio – mormorano nel Pd – anche per questo mantiene un canale aperto con la Meloni».
Se Berlusconi si candida ufficialmente, sono 452 i voti di Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia e dei gruppi di Toti e Lupi, al netto di possibili franchi tiratori. Ma è nel gruppo misto, in quegli oltre cento voti considerati conquistabili che guarda il pallottoliere di Berlusconi, oltre che nel vasto bacino dei sempre più frastagliati Cinque stelle. «Hanno dato voce a un disagio reale che merita rispetto e attenzione», li coccola via intervista; anche sul reddito di cittadinanza ha parole di consenso – «è andato finalmente a contrastare situazioni di povertà» – nello sforzo non molto nascosto di darsi un profilo ecumenico e accattivarsi simpatie.
Manca meno di un mese alle votazioni. «Se ci si crede la si può vincere», è ottimista Gianfranco Miccichè, il presidente dell’Assemblea regionale siciliana che verrà a Roma come delegato regionale. «Berlusconi è imprevedibile, chi lo sa se manterrà la candidatura oppure no», allarga le braccia Gaetano Quagliariello. Due sono le variabili che potrebbero incidere su qualunque scelta. L’andamento della pandemia, che più dovesse aggravarsi e più potrebbe tradursi in una pressione sull’unico candidato che farebbe desistere Berlusconi, cioè Mario Draghi, per restare a Palazzo Chigi. E la paura di andare al voto anticipato di un Parlamento che, la prossima volta, sarà dimezzato. «Nessun gruppo può essere sicuro dei suoi numeri – predica un vecchio leghista – sull’elezione del presidente della Repubblica rischia di consumarsi la vendetta del peones». Ne sa qualcosa Prodi. Quella che Berlusconi vuole a ogni costo evitare. —