Il Sole 24 Ore, 29 dicembre 2021
L’Afghanistan ripiomba nel passato
Difficile dimenticare le immagini strazianti di quei giorni. Quei giovani afghani aggrappati ai carrelli degli aerei precipitare nel vuoto per migliaia di metri pochi minuti dopo il decollo. Le decine di migliaia di disperati premere sulle cancellate dell’aeroporto in cerca di una via di fuga. I kamikaze dell’Isis, le carneficine. Le lacrime delle donne, la paura per il domani e per la perdita dei diritti.
Da allora sono passati tre mesi e mezzo. Oggi l’Afghanistan è divenuta la crisi umanitaria più grave al mondo. E con l’inverno alle porte, e la difficoltà a far pervenire più aiuti cercando al contempo di bypassare i talebani, la crisi non può che peggiorare.
Sono passati solo pochi mesi, ma quanto accaduto viene già ricordato come la missione militare più fallimentare nella storia degli Stati Uniti. Il ritiro troppo rapido e male orchestrato delle forze americane dall’Afghanistan, dopo 20 anni di presenza, ha spianato la strada ai talebani. Con un’offensiva impressionante gli insorti hanno liquidato le forze governative, addestrate da diversi Paesi Nato (inclusa l’Italia) conquistando città dopo città nell’arco di poche settimane, entrando a Kabul quasi senza colpo sparare lo scorso 15 agosto.
Sono passati poco più di cento giorni da quando gli studenti del Corano hanno preso il potere. Certo, la loro impreparazione, l’assenza di tecnici e personale qualificato tra le loro file, le faide interne, hanno subito paralizzato l’amministrazione. Con effetti immediati. La situazione economica è disastrosa. Il Paese è messo in ginocchio dalla carenza di valuta pregiata, in particolare dollari americani. Anche nella capitale i bancomat funzionano a singhiozzo. E quando funzionano, solo pochi fortunati che hanno trascorso la notte all’addiaccio per poter essere primi riescono a prelevare contanti. Sono sempre di più ad aver ormai perso l’accesso ai conti bancari e ai risparmi. L’inflazione galoppa, il potere di acquisto di gran parte della popolazione è crollato. Milioni di persone non sono più in grado di pagare per i servizi di base, nemmeno per i mezzi di trasporto verso gli ospedali.
La sospensione, decisa dall’Occidente, dei finanziamenti dell’Afghan Reconstruction Fund, amministrato dalla Banca mondiale, si è rovesciata a cascata su un sistema sanitario già fatiscente. Dalla crisi economica a quella umanitaria il passo è stato – crudelmente – breve.
In questi giorni in Afghanistan si muore. Di fame, di stenti, di malattie. Si muore anche di freddo. Non solo nelle regioni impervie e montagnose. Anche nelle grandi città. Pochi numeri tratteggiano uno scenario inquietante: 23 milioni di afghani, il 55% della popolazione, sono denutriti. Nove milioni sono a rischio carestia. A pagare il prezzo più grave sono sempre i bambini. Secondo Save the Children, 14 milioni di bimbi soffriranno la fame in inverno, 800mila non avranno un rifugio adeguato per difendersi dal freddo.
Sono passati solo tre mesi e mezzo. E i “nuovi” talebani, desiderosi di essere apprezzati come moderati e tolleranti, e ansiosi di veder riconosciuto come legittimo il loro nuovo Governo, hanno mostrato il vero volto. Il provvedimento assunto domenica scorsa, ovvero il divieto per le donne di percorrere distanze maggiori di 72 chilometri senza un accompagnatore maschio, è solo l’ultimo di una lunga serie di gravi limitazioni ai diritti e alle libertà personali delle donne. Nella maggior parte dei casi, ormai le ragazze non possono lavorare e studiare dopo il compimento dei 12 anni. Solo un mese fa i talebani avevano proibito alle reti televisive afghane di trasmettere programmi o telenovele in cui comparissero delle donne. Avevano promesso istruzione e lavoro senza discriminazione di genere. Ma, ad eccezione di alcuni casi particolari, la stragrande maggioranza delle donne afghane oggi non può lavorare.
Insomma c’è un prima e un dopo questa tragica estate del 2021. Il prima ci racconta la cronaca di un Paese che, grazie anche alle organizzazioni umanitarie, agli aiuti stranieri e alla cooperazione internazionale, anno dopo anno aveva compiuto progressi insperati lasciandosi alle spalle un decennio tragico. Le donne lavoravano, frequentavano le università, occupavano posizioni di primo piano nella pubblica amministrazione, nelle istituzioni, nella polizia. Un Paese che faticosamente stava provando a sviluppare una sua pur rudimentale economia. A Kabul erano comparse perfino boutique afghane di moda, si poteva assistere a concerti rock.
Il dopo, invece, ci racconta lo scenario che tutti temevano. Il ritorno al passato, agli anni bui del regime talebano (1996-2001), alle loro feroci leggi oscurantiste. E per le donne la paura di essere segregate in casa, di tornare ad essere prigioniere del burqa quando devono uscire.
Sono passati solo tre mesi e mezzo da quel 15 agosto. Eppure quella afghana sembra quasi una crisi dimenticata. Sempre più raramente i riflettori dei media internazionali si accendono su questa drammatica realtà. La comunità internazionale è divisa. Gli Stati Uniti, per esempio, non hanno alcuna intenzione di riconoscere il Governo dei nuovi padroni dell’Afghanistan. Né di sbloccare i 7 miliardi di dollari della banca centrale afghana depositati presso la Fed. Non vogliono allentare le sanzioni contro i talebani. E quindi sono molto attenti a non permettere che aiuti e beni finiscano nelle loro mani. Pur su posizioni meno rigide, la pensano così anche i Paesi europei. Ma così facendo a farne le spese sono decine di milioni di afghani. Ormai stremati. La comunità internazionale non può e non deve volgere lo sguardo altrove. Deve trovare un modo per far pervenire molti più aiuti alla popolazione, altrimenti sarà la catastrofe. E deve farlo in fretta.