Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  dicembre 29 Mercoledì calendario

Il Natale insieme e il ridicolo protocollo della Normale

Ho spesso il telefono spento, ma è perché la batteria è scarica. Non lo spengo mai volontariamente, nonostante da ormai un decennio la pubblicistica specie femminile ci dica che dobbiamo riappropriarci della nostra vita e non lasciare che il telefono la occupi, e da un decennio io non capisco di cosa parlino: io nel telefono ho gli amici e le cose che mi piace leggere e i pettegolezzi che mi divertono e i giochini scemi e Google per tutte le cose che non mi ricordo. A me fa piacere tenere il telefono acceso, non so che problema abbiate voi.
Dicono – i manuali di autoaiuto, la pubblicistica femminile, e quelli che usano espressioni come «burnout» giacché non hanno mai dovuto zappare la terra e la loro idea di attività usurante è fare le riunioni su Zoom – che il telefono vada spento per tutelarsi da quei brutti e cattivi del lavoro che sennò sono capaci, felloni, di mandarti mail alle dieci di sera. E qui arriviamo alla parte in cui, così come sono io a stare seduta a gambe aperte e a impedire di star comodo al povero maschio del sedile a fianco, così come sono io a monologare prepotentemente per minuti impedendo al povero interlocutore di esprimersi, allo stesso modo sono io a mandare mail alle dieci di sera (ma pure alle tre di notte) a quelli per cui lavoro.
Il fatto è che a me il mio lavoro piace – non quanto stare seduta svaccata e monologare, ma quasi. E lo so che c’è gente sfortunata che è costretta a tenersi lavori di merda, ma non è mai quella che invoca lo spegnimento dei cellulari fuori orario. A lamentarsi del – santiddio – burnout sono sempre quelli i cui genitori hanno speso tanto per fargli studiare ciò che preferivano, per aiutarli a – santiddio – inseguire i loro sogni, per fare di loro degli adulti appagati. E si ritrovano con dei figli per i quali il lavoro è un incubo, si ritrovano con dei Checco Zalone in sessantaquattresimo.
Tutta questa premessa un po’ perché se non faccio sessanta righe di premessa pensate che non mi senta bene, e un po’ per dirvi che invece in questi giorni spengo spesso il telefono. Perché tutte le telefonate – ma non tutte come iperbole, tutte proprio nel senso di tutte – sono di gente che mi dice una cosa a scelta tra: sono positivo; sono stato in contatto con un positivo quindi sono in quarantena; sono negativo ma non mi posso muovere da casa perché in classe di mio figlio c’erano dei positivi; avevo fatto tre tamponi rapidi ed ero negativo e quindi sono andato a un rave/a un aperitivo/a un’orgia in sauna e poi ho fatto il molecolare e ho scoperto che in realtà ero positivo.
Quindi riattacco, sono lì che mi chiedo come sia possibile che l’anno scorso, che non c’erano i vaccini, non conoscessi nessuno che s’era contagiato, e quest’anno tutti; sono lì che mi accingo a dar la colpa ai pranzi di Natale; apro Instagram, e vedo gente che a dieci tondini preoccupati per i contagi fa seguire quindici tondini in cui ansima, suda, si agita in palestra, il tutto senza mascherina, e se glielo dici ti dicono che il protocollo non prevede che. Il protocollo non prevede di doverti inoculare lui il buonsenso, è stato stilato pensando tu ne fossi stato fornito alla nascita.
È a quel punto che spengo il telefono lanciandolo contro il muro, e decido che io di voialtri esseri umani non voglio più sapere niente.
L’altro giorno qualcuno ha postato il video d’un discorso tenuto da uno studente della Normale. L’ha postato per stigmatizzare quel che diceva lo studente, ma io preferisco sempre il dito alla luna, e ho notato che tutti quelli seduti ad ascoltarlo, muti e non emittenti goccioline potenzialmente contagiose, avevano la mascherina, e quello al microfono no. Ho ricevuto una sleppa di notifiche d’un professore della Normale che, invasato come una fan di Justin Bieber cui qualcuno avesse osato toccare il suo idolo, mi spiegava che lo studente stava seguendo il rigido protocollo della Normale. L’idea di «protocollo» come parola magica che renda sensata qualunque stronzata fa abbastanza ridere, ma non quanto l’aggettivo «rigido» applicato all’idea che farti togliere la mascherina nell’unico momento in cui servirebbe, cioè quello in cui sputacchi, sia una forma di rigorosa disciplina.
Poi ci sarebbe da dire delle migliori università dove i migliori cervelli non imparano a funzionare abbastanza da dire, davanti a un protocollo secondo il quale se la finestra è aperta puoi buttarti, «no, guardate, io opterei per non buttarmi comunque, se per voi non è troppo disturbo».
Poi certo, è comunque colpa del Natale, di quelli che tutto l’anno ti spiegano quanto odiano i loro congiunti ma se il 24 non mangiano il capitone gli sembra venga meno un loro diritto costituzionale, e quindi dopo averti detto che forse sono positivi, forse il test rapido è una stronzata, forse hanno contagiato venticinque persone alitando belli tranquilli in faccia a tutti durante l’aperitivo di Natale aziendale, dopo la premessa ti dicono che certo, mica si possono saltare i festeggiamenti. Staremo attenti, dai. E poi il protocollo dice che si può. Se me ne stampate una copia, del protocollo, vedo d’ingoiarla insieme alla sim del telefono.