Corriere della Sera, 28 dicembre 2021
Il naufragio di Utopia
Tra tutti questi cadaveri si scorgeva una donna di mezza età che al suo fianco stringeva un bimbo di circa due anni, con le braccia in posizione tale da immaginare che il piccolo cercasse di assicurarsi al collo della madre durante la lotta estrema combattuta con i marosi che era costata la vita a entrambi. Era angosciante assistere alla scena dei soccorritori che raccoglievano i corpi di queste povere vittime ed in particolare era straziante vedere quella piccola manina del bambino che anche da morto non voleva lasciare il collo della mamma».
Ferma il fiato, centotrenta anni dopo i naufragi di questi giorni pianti da Papa Francesco, leggere su The Liberal del 1891, versione in inglese del giornale spagnolo El Liberal, la cronaca del recupero a Gibilterra dei cadaveri dei nostri nonni in gran parte campani, molisani, abruzzesi, morti nel naufragio del bastimento Utopia, sorpreso da una violenta tempesta dentro il porto britannico in faccia a quello iberico di Algeciras. E lascia la bocca amara leggere nelle cronache d’epoca la storia dell’insultante sconfitta subita da quegli italiani davanti alla prepotenza della Marina e della Magistratura inglesi che chiusero in due giorni l’inchiesta sul disastro, causato da un errore del comandante della nave, appoggiando gli armatori inglesi nel rifiuto di pagare i danni ai nostri nonni annientati in quello che fu, per numero di vittime, il più tragico di tutti i nostri naufragi della nostra storia.
Certo, quei migranti a larga maggioranza analfabeti non avevano idea di cosa fosse l’isola a 15 miglia dalla costa del Sudamerica immaginata nel 1516 da Tommaso Moro nella sua opera L’Utopia. O la migliore forma di repubblica. Non sapevano che laggiù il mitico fiume Anidro portava un nome che significava «senza acqua» e la mitica città di Amauroto quello di «città invisibile» e lo stesso nome dell’isola «Utopia» stava per «non luogo». Un paradiso, ma inesistente. L’Utopia era il sogno. Tanto bastava. Per quello i fratelli Henderson di Glasgow avevano battezzato così il transatlantico costruito per la Anchor Line nel 1874. Per quello i primi passeggeri che s’imbarcarono per l’America a Trieste il 7 marzo 1891 e tutti gli altri che si sarebbero via via aggiunti a Fiume, Palermo e soprattutto a Napoli erano certi il nome stesso fosse un augurio di buona sorte.
Andò tutto bene fino al 17 marzo e alle mitiche Colonne d’Ercole. Poi il tempo, verso sera, si guastò. Il cielo si oscurò, il vento si levò furioso, il mare si gonfiò mentre l’Utopia entrava nella baia di Gibilterra. Solo allora il comandante John McKeague si accorse del pericolo. «Mentre cercavo di mettermi in una posizione di sicurezza, le luci delle navi mi hanno abbagliato e non sono stato in grado di vedere nettamente cosa ci fosse davanti», dirà a verbale, «Quando sono riuscito a vedere con chiarezza la scena, ho capito che davanti c’erano molte navi. C’era la poppa dell’Anson ma io ho pensato che sarei riuscito a passare senza toccarla. Quando mi sono reso conto che la Anson aveva toccato l’Utopia, ho dato ordine di far calare le scialuppe di salvataggio e salvare i passeggeri. Mentre davo ordini per organizzare il salvataggio la nave si è inclinata di 70° immergendo le scialuppe sott’acqua».
Non sarebbero bastate comunque: quelle in dotazione erano sette, per 460 persone: poco più della metà delle 880, equipaggio compreso, che erano a bordo. Men che meno, accusa Pina Mafodda nel libro Utopia, Il naufragio tra cronaca e storia (edizioni Volturnia) erano i giubbotti di salvataggio: un paio di centinaia. Neppure un quarto di quanti sarebbero stati necessari. Una scelta criminale. Tanto più per armatori gonfi di alterigia vittoriana.
A maggior ragione pesano, come spiega Marino Valentini in un altro libro, Il naufragio dell’Utopia. Il Titanic degli abruzzesi dimenticati, edito da Tabula Fati, i resoconti dei giornali di allora. Tipo una cronaca su caos e disperazione: «Sul ponte c’erano marinai a sufficienza ma gli italiani correvano come bestie feroci e iniziarono nell’oscurità una tremenda battaglia di sopravvivenza: la brutalità di certi emigranti uomini che combattevano ferocemente, aveva ormai annientato ogni sentimento di generosità, c’era solo il trionfo della bestia robusta: molte donne e bambini vennero allontanati a pugni».
Il bilancio fu sconvolgente: almeno 562 emigranti morti. Generosissimo l’aiuto dei marinai dell’Utopia e delle navi intorno. Sconcertanti le scelte giudiziarie. Sulle prime, ricordò il New York Times, il capitano McKeague venne arrestato e accusato di «atti illeciti, condotta impropria, negligenza e cattiva gestione». Subito dopo fu rilasciato su cauzione di 480 sterline e processato per il «crudele omicidio di un numero imprecisato di persone». Il processo durò solo due giorni, i testimoni sembravano unanimi: «Il primo ufficiale di coperta della corazzata britannica Anson ha dichiarato che, a suo parere, l’incidente è stato il risultato di negligenza da parte degli ufficiali dell’Utopia. Un cannoniere della Anson ha testimoniato che l’Utopia avrebbe potuto continuare la propria rotta passando sotto la poppa della Anson senza correre alcun rischio. Il Cap. Bouverie F. Clark della Anson ritiene che l’incidente “sia stato a causa di un errore di valutazione da parte del Capitano McKeague”...» E così via. Eppure il Giurì della Marina britannica, restituendo addirittura a McKeague la possibilità di pilotare, riconobbe solo «un grave errore di valutazione». E a ciò s’attaccarono i fratelli Henderson per rifiutare ogni risarcimento a vittime e familiari. Peggio: nei vari processi italiani, a Napoli, avviati nell’autunno 1891 gli armatori sostennero di avere qualche responsabilità, al massimo, sulla scarsità di scialuppe e giubbotti. In ogni caso, dissero, gli emigranti avevano firmato il contratto mica con loro ma con gli agenti marittimi sparsi per le contrade d’Italia. Peggio ancora: nonostante fossero stati condannati a risarcimenti miserabili (esempio citato da Mafodda: in provincia di Salerno ogni orfano, vedovo o vedova d’un morto dell’Utopia aveva diritto a 27,08 lire pari all’acquisto, all’epoca, di 71 chili di pane o 18 di carne bovina: una vergogna) gli Henderson non accettarono di riconoscere le sentenze dell’Italia. Come difensore, contro i nostri nonni, poterono contare anche sull’avvocato e parlamentare Francesco Crispi. Che dell’Italia era stato e sarebbe tornato ad essere il presidente del Consiglio. Forse era tutto regolare. Ma che faccia...