Corriere della Sera, 28 dicembre 2021
Intervista alla Gialappa’s band
In tv da 35 anni «e nessuno ci riconosce». La Gialappa’s band dal 1985, quando «proponemmo in radio il nostro modo di raccontare le partite» fino a Mai dire gol.
Gialappa’s, cominciamo dagli inizi, come è gi usto fare.
«Nel 1985, c’era un programma a Radio Popolare che esisteva ben prima che noi cominciassimo a condurlo. Si chiamava Bar Sport ed era una trasmissione che cercava di dissacrare il calcio. Erano anni lontanissimi. Si fa fatica a ricordare quanto fosse serio e ingessato l’approccio al calcio. Biscardi era nel massimo fulgore. Gilberto Evangelisti era il capo del pool sportivo, Rai Sport di allora. Proponemmo il nostro modo di raccontare le partite. La sua risposta fu ferma e sdegnata: “Il calcio è una religione, non si bestemmia sul sagrato”. Adesso è una frase che fa ridere o forse anche arrabbiare, ma allora ci parve tutto sommato comprensibile. Quelle erano le regole linguistiche del tempo. Alcuni avevano provato a dissacrare: sulla carta stampata Gianni Mura, in televisione l’indimenticabile Beppe Viola. Il Bar Sport era il contrario del Processo del lunedì di Biscardi: i giornalisti lì erano teoricamente seri ma in realtà erano tifosi. Noi invece eravamo tifosi dichiarati».
Quando decideste di mettervi insieme?
«All’inizio eravamo in quattro. C’era anche Sergio Ferrentino. Quella stagione finiva con i Mondiali di calcio dell’86. Dalla regia avevano stabilito che ci dovessimo dividere le squadre per cui tifare. Veniva una schifezza. Raccontammo Francia-Canada dicendo qualsiasi cagata e ovviamente ebbe un successo travolgente. In effetti faceva ridere. Da Mediaset ci chiamarono senza assolutamente sapere chi fossimo. Ci trovammo tutti e quattro a fare gli autori e dei piccoli filmati all’interno di uno dei programmi più brutti che la storia della televisione possa ricordare. Si chiamava Quel fantastico tragico venerdì con Paolo Villaggio e Carmen Russo e chiunque altro. Un autentico minestrone. Autori Terzoli e Vaime».
Esito?
«Di prassi eravamo in redazione o in montaggio per preparare i testi a uno che doveva imitare Biscardi. La prima cosa nostra, la prima in voce, era Tutte le telenovela minuto per minuto. Ci collegavamo da tre telenovelas che avevano in magazzino a Mediaset fingendo fossero campi di calcio. Nella nostra giovanile ingenuità eravamo convinti che il programma fosse decente. Avvertimmo orgogliosi le famiglie: “Guardate che venerdì inizia il nostro programma”. Dopo mezz’ora, eravamo a casa con i nostri genitori, ci vergognavamo da matti».
Qual è il primo programma che voi considerate veramente vostro?
«Mai dire Banzai. Lì è nato il “Mai dire”. Cercavamo idee per un titolo. Quell’anno c’era un film di James Bond con Sean Connery: Mai dire mai. Il programma che volevamo fare era sul Giappone e ci venne in mente Mai dire Banzai. E da lì abbiamo sempre mantenuto il “Mai dire”. Era più semplice non dover cambiare il titolo ogni volta. Ai giornalisti dicevamo “Tutti quanti cambiano i titoli e rifanno lo stesso programma. Noi invece facciamo programmi sempre diversi e allora teniamo il titolo uguale”».
Voi siete stati tra i principali protagonisti della storia della televisione negli ultimi trent’anni.
«Trentacinque».
Però se girate per strada nessuno vi riconosce. È il paradosso estremo, perché la gente fa la televisione anche per essere riconosciuta. Voi invece fate la televisione da trentacinque anni, fate divertire milioni di italiani, però nessuno vi dà la carne migliore, quando andate dal macellaio.
«È vero, però nessuno ci rompe le balle con i selfie, gli autografi. Ci va benissimo così. Non lo sapevamo allora, ma forse siamo stati longevi per questo motivo. Pensa trentacinque anni in video come avremmo rotto le palle. È vero che c’è chiunque in video per lustri e lustri. Però nella comicità la vita è più breve, se metti sempre in mostra il faccione. La nostra comicità funziona proprio perché è “esterna” al contesto. Come un punto di vista altro, un controcanto. Eravamo bravi a fare la radio e a portarla in televisione. Noi fondamentalmente siamo tre “spalle”, abbiamo bisogno del capocomico da dileggiare. È come il pubblico nel varietà di un tempo».
La «spalla» il Carlo Campanini o il Gianni Agus di turno, è stato di volta in volta diverso, da Lippi fino a Savino...
«Il nostro meccanismo di base è il presentatore che fa o dice una minchiata e noi che gli diciamo “Ma cosa stai dicendo, pirla!”. Avemmo un problema quando prendemmo come conduttore di Mai dire gol Gioele Dix, perché Gioele ha una comicità intelligente, raramente dice cazzate e quindi non c’era il batti e ribatti. Veniva da dire sì ha ragione e quindi non funzionava. Lo cambiammo e mettemmo Bisio. Se c’è uno che sa fare il coglione meravigliosamente è Claudio».
Chi è stato in questi anni il vostro conduttore ideale? Il Mario Castellani della Gialappa’s ?
«Il mago Forest, non abbiamo dubbi. Lo ha fatto per quasi venti anni. Con quell’aria da scappato di casa, con quella meravigliosa e geniale cialtroneria, con dei tempi comici perfetti è sempre stato il nostro capocomico ideale».
Quanto è scritto e quant’è improvvisato nel vostro lavoro?
«Quando noi leggiamo una cosa lo si capisce lontano un miglio, perché non sappiamo recitare. Abbiamo ovviamente delle tracce, talvolta delle battute o dei dialoghi preparati. Ma molto è improvvisazione. E ovviamente scelta dei personaggi».
Come li sceglievate?
«Li cercavamo in giro nei teatri. A Zelig, che non era ancora programma televisivo, avevano dei comici da farci vedere, ogni tanto ce li segnalavano. Aldo Giovanni e Giacomo, per esempio. Ci dissero che avevano dei pezzi e li mandarono, ci piacquero molto. Abbiamo visto lì Fabio De Luigi, la Littizzetto, Albanese e altri. Paola Cortellesi mandò un VHS in redazione. Marco lo vide in una pausa pranzo e rimase con il boccone in mano: era uno straordinario talento. Faceva tre, quattro personaggi. Tutti riusciti. Le telefonammo e lei, che come sogno aveva fare Mai dire gol, era convinta che la stessimo prendendo in giro, che fosse uno scherzo. Allora le demmo il numero del centralino dicendo:“Chiama Mediaset e chiedi di Mai dire gol. Vedrai che ti rispondiamo noi».
In una puntata Teo tirò giù la chiusura lampo del vestito di Simona Ventura. Oggi sarebbe impensabile, come il Tuca Tuca. Come è possibile fare il vostro lavoro nel tempo del politicamente corretto?
«Molti dei personaggi di Mai dire gol probabilmente oggi non potrebbero andare in onda. Ne citiamo due: il personaggio di Bebo Storti. Faceva un bianco leghista dipinto di nero. Era un pezzo chiaramente contro la Lega, però oggi sarebbe un problema. Il conte Uguccione, anche lui obiettivamente sarebbe discusso. Il problema è che questi moralisti della tastiera oggi hanno voce. Una volta, come diceva Umberto Eco, stavano al bar del paese e si lamentavano. Oggi bastano duecento incazzati che protestano sui social e i giornalisti che scrivono “il web esplode”. Parliamoci chiaro: il vero problema è che tre scriteriati scrivono baggianate sul web e poi tutti i giornali titolano che la Rete si indigna. Ma non è vero. È una minoranza. Farla passare per pensiero generale è sbagliato e pericoloso».
I social spesso riescono ad essere divertenti. In fondo, nel commentare, sono come una gigantesca Gialappa’s Band.
«Sì, in fondo sì. Noi commentiamo da uno studio televisivo. Il pubblico dal salone di casa propria. Azione e reazione o, come dicono i moderni la “reaction” come linguaggio comico, come sede della dissacrazione. Noi siamo sempre stati tre amici sul divano che commentavano quello che vedevano».
Arbore, ma anche Dandini o Boris non raccoglievano decine di milioni di spettatori, eppure il loro mondo è entrato nell’immaginario del paese più di tanti primatisti assoluti dell’audience.
«Perché sono cult, le cose cult raramente hanno grande successo. Se pensi a Animal House, Blues Brothers, non furono dei grandi successi, quando uscirono. Neanche i fratelli Coen. Anche Totò fu bistrattato dai critici e trattato sdegnosamente dalle èlites».
Il calcio, il «Grande Fratello» dall’interno di Mediaset e Sanremo dall’interno della Rai. Mi sembra che in voi ci sia l’idea che esista sempre un muro contro il quale è giusto lanciarsi.
«È molto più bello prendersela con cose importanti e super popolari. Più bello e più rischioso. Noi vogliamo rompere le palle a chi è sulla cresta dell’onda, non a chi cerca di sopravvivere in seconda o terza fila».
Chi ha avuto più influenza su di voi dal punto di vista comico?
«Woody Allen, Beppe Viola, sicuramente una certa comicità milanese del Derby. Abbiamo iniziato con Teo Teocoli, Gaspare e Zuzzurro, Paolo Rossi, che a Milano era un mito. E poi sicuramente Renzo Arbore perché come stile un po’ a lui ci siamo ispirati. Renzo ci ha sempre definiti i suoi nipotini e noi ne siamo orgogliosi. Arbore non ha mai fatto le repliche dei suoi programmi perché sa che sono legati ciascuno al proprio tempo».
Il film che vi ha fatto più ridere in vita vostra?
«Forse Benigni – Troisi, Non ci resta che piangere, la scena del passaggio a livello e del fiorino. John Belushi, Animal House o Blues Brothers. E poi dei film che hanno fatto scuola: Prendi i soldi e scappa di Woody Allen e Clerks di Kevin Smith perché da lì è nata tutta la comicità americana politicamente scorretta. Se vogliamo poi risalire alle fonti troviamo Hellzapoppin e i Fratelli Marx».
Di tutti i personaggi che avete fatto quale è quello a cui siete più affezionati?
«Caccamo, popolare e surreale insieme. Aspettavamo il suo momento noi che facevamo la trasmissione, figurarsi il pubblico. Ma anche quelli che non hanno avuto quella fortuna. Come Bisio quando faceva l’agente dei calciatori. Ma l’emblema del successo e della follia di quegli anni è Tafazzi. Tafazzi è un personaggio che sarà stato in onda in tutto un minuto e mezzo, ed è passato alla storia. Allora l’Unità lo citò giustamente come emblema di una certa sinistra e da quel momento il suo nome è entrato nel linguaggio comune».
Di chi fu l’idea di Tafazzi?
«Una sera Giacomo aveva questa bottiglia in mano, si annoiava e aveva cominciato a darsela sui coglioni. Così, perché non sapeva cosa fare. Come certa sinistra».
Carcarlo Pravettoni come fu accolto in Mediaset?
«Carcarlo di Hendel è stato un personaggio che abbiamo amato tantissimo, anche perché era l’emblema di mille persone viventi. Secondo noi a Mediaset non capirono, abbiamo sempre avuto questo dubbio. Almeno nessuno ci ha mai detto nulla. È veramente la parodia del berlusconismo. In un viaggio all’estero beccammo l’amministratore delegato di una società di viaggi che era un Pravettoni integrale. Ovviamente era entusiasta di Pravettoni. Ma lui era consapevole di essere un minchione e contento che ci fosse un minchione che lo rappresentava. Lo considerava un omaggio e non una critica».
Far ridere in pandemia com’è?
«Noi siamo stati fermi per un anno, quindi non l’abbiamo fatto. C’era un grande bisogno di leggerezza, in quel clima tetro. Ma la tv in quel periodo era paralizzata perché sono crollati gli investimenti pubblicitari e quindi nessuno produceva più programmi. Infatti l’unica valvola di scarico sono stati i social. Noi abbiamo fatto gli Europei su Twitch. La tv tradizionale era completamente paralizzata, non si è investito più dalla pandemia in poi in televisione e lo stiamo ancora pagando. Il programma preferito adesso è: I numeri della pandemia. Si è fermata la creatività. Ormai in televisione si fanno solo talk show, perché costano poco. E poi c’ è l’ossessione presentista degli ascolti. Se dopo tre puntate non crescono, ti chiudono».
Avete mai litigato voi tre?
«Sì».
E avete mai pensato di lasciarvi?
«Carlo è uno che lo pensa da vent’anni. Ultimamente ha diradato molto le sue partecipazioni, lui dice che la ragione è che porta dentro come un retaggio atavico la vergogna di questo mestiere. Lasciamo parlare lui: “Io l’ho vissuto sulla mia pelle, perché mi chiamo Taranto e sono lontano parente di Nino Taranto. Anche di Carlo Taranto, che faceva la parodia di Herrera in Il Presidente del Borgorosso football club. Quando veniva Nino Taranto a Milano – le compagnie allora stavano un mese – la mia famiglia si industriava a trovare trenta scuse per non andarlo a vedere. Lui veniva a visitare la famiglia e in casa c’era la fuga. E mi è rimasta questa convinzione: il mestiere dell’attore è per persone che non vengono poi sepolte in terra consacrata. È stato così per secoli”».
Se i nostri figli vi chiedono che mestiere fate cosa rispondete?
«Il cretino. Papà fa il cretino in tv. Il figlio di Marco due anni fa aveva quattro anni e all’asilo, alla domanda “Cosa fanno i vostri papà?”, rispose in un tema: “Mio papà non fa niente”. Aveva ragione, nel senso che in quel periodo lavoravamo molto poco. I nostri figli adolescenti non ci hanno mai considerato per il lavoro che facciamo. Però quando abbiamo usato Twitch hanno incominciato a guardarci con occhi diversi, perché eravamo star di quel social. Per i ragazzini Twitch è ovviamente il top. Sulla carta d’identità non sappiamo mai cosa scrivere, come tutti i colleghi. Il figlio di Giorgio aveva otto anni, faceva le elementari, e una volta arrivò un altro ragazzino della sua scuola che disse: “Ma il tuo papà è uno della Gialappa’s?”. E lui gli rispose: “Sì, perché, anche il tuo?”. Voleva condividere la vergogna».
Per concludere: quale è il programma che ora vi piacerebbe fare?
«L’unico programma che assomiglia a quelli che abbiamo fatto in passato, è quello di Maurizio Crozza. Non c’è nient’altro, purtroppo, che possa assomigliare come atmosfera, come approccio, come desiderio di non far solo ridere, a quello che abbiamo tentato noi. Verrebbe da dire che sarebbe bello rifare un Mai dire gol. Ma oggi è difficile reperire gente nuova che faccia davvero ridere. Una cosa che rifaremmo volentieri, a parte un film, è un dopofestival o qualcosa che riguardi Sanremo. Hai miliardi di cose da prendere per il culo lì. E dissacrare il mostro sacro che fa ascolti allucinanti, con tutta l’Italia ferma, è davvero bello. Ci piacerebbe anche partecipare fuori campo ad un talk show politico, tipo Di martedì o Carta Bianca. Disturbare veramente i politici, perché non lo si fa quanto si dovrebbe. E poi commentare i Mondiali e gli Europei. Quello lo faremmo fino a novant’anni».