la Repubblica, 28 dicembre 2021
Intervista a Michael O’Hanlon
Risolutezza e misura, fermezza e moderazione. Sulle prime potrebbero sembrare parole contraddittorie, ma secondo Michael O’Hanlon sono i criteri su cui gli Stati Uniti dovrebbero basare la ricostruzione della loro grande strategia globale. Infatti il direttore della ricerca sulla politica estera alla Brookings Institution ci ha scritto su un libro, furbescamente intitolato L’arte della guerra in un’età della pace.
Cosa intende col concetto di “Resolute restraint”?
«L’idea della risolutezza è che ci sono cose importanti per cui vale la pena di combattere. Con ciò intendo soprattutto la libertà degli Usa, dei nostri alleati, la Nato, la facoltà di tutti i Paesi di usare il mare aperto per il commercio e le rotte aeree per i trasporti, e gli sforzi per prevenire la diffusione della tecnologia nucleare.
Dalla Seconda guerra mondiale in poi abbiamo visto i benefici di una politica per la sicurezza nazionale americana e il sistema delle alleanze basata su questi concetti. La misura invece riguarda l’allargamento delle alleanze, a cui sono generalmente contrario; la volontà di usare molta forza presto, in un conflitto tra superpotenze, forse anche prima che Russia o Cina sparino contro di noi; l’approccio non pragmatico a negoziare con Iran e Corea del Nord. Quindi restraint significa abbassare le nostre ambizioni, dagli obiettivi più grandiosi ed espansionistici americani, a ciò che davvero ci serve».
È possibile applicare questa teoria alla Russia, mentre minaccia di invadere l’Ucraina?
«Non credo che dovremmo combattere per Kiev. Biden ha ragione a distinguere tra l’Ucraina, valido amico ma non un alleato, e i Paesi Baltici o la Polonia, membri della Nato. È cruciale che ogni Paese dell’Alleanza sia difeso in maniera robusta, perché altrimenti la stessa Alleanza perde la credibilità. Però non credo che la Nato debba essere un club aperto al maggior numero possibile di Paesi europei. Fosse stato per me, non avrei invitato gli stati baltici. Perciò la strategia di Biden è corretta: chiarire in anticipo che applicheremo potenti sanzioni economiche, più dure del 2014, estese ai settori di energia e finanza.
Ma portare la Nato davanti alla porta di casa della Russia non funziona».
E se Putin invade?
«Non sono favorevole ad una risposta militare di Usa o Nato, non voglio mandare i miei figli, o i vostri, a morire per Kiev. Non credo che il proposito dell’Alleanza sia coprire tutto il mondo, con un’architettura per la sicurezza che richiede agli Usa e agli alleati più stretti di trattare tutto il pianeta come se fosse un nostro territorio. Durante la Guerra Fredda la promessa di difendersi a vicenda aveva senso, davanti alla minaccia espansionista sovietica. Ma dopo il 1989 la Nato è stata usata come strumento per promuovere la democrazia e il progetto dell’Unione Europa, e non credo sia stato l’approccio giusto. Ha urtato non solo Putin, ma anche Gorbaciov ci aveva avvertiti, ed era una reazione abbastanza prevedibile».
Non è una linea disfattista, che aiuta Putin a disgregare la Nato dimostrando che non ha volontà e capacità di combattere?
«Nell’arco della mia vita questi argomenti sono stati usati per giustificare le guerre in Vietnam e Iraq, perciò non credo che valga la pena di rischiare un conflitto solo per evitare l’apparenza di sembrare deboli o disfattisti. In realtà gli Usa sono nella posizione strategica più forte di sempre, con circa 60 alleati nel mondo che rappresentano due terzi del Pil mondiale e delle spese militari. Non giustifico Putin, che è troppo lamentoso e orgoglioso: sarebbe stato molto più utile per la Russia unirsi all’Occidente, invece di sfidarlo. Ma proprio per questo possiamo permetterci di essere misurati. Non è una luce verde per Mosca ad aggredire Kiev: se lo facesse, sarei favorevole ad aumentare le forze armate americane e occidentali nei Paesi Baltici e in Polonia, e avere posizioni difensive più robuste sui confini Nato».
Cosa pensa della difesa europea?
«Se gli europei vogliono fare di più in Europa, per me va bene, perché crea una maggiore capacità militare utile anche alla Nato».
È possibile evitare la “trappola di Tucidide” con la Cina?
«Sì, e qui entra in gioco il restraint. Come prima cosa, Tucidide prevedeva lo scontro inevitabile fra l’autocratica Sparta e l’emergente democratica Atene, mentre qui la democrazia siamo noi e la potenza emergente è l’autocrazia. Poi a noi non interessa impedire la crescita cinese, anzi l’abbiamo aiutata. Possediamo la deterrenza nucleare, molti più alleati, un vantaggio economico e geografico che ci consentono di evitare la trappola».
Però nel libro lei disegna diversi scenari di guerra con la Cina.
«Potrebbe aggredire le isole Senkaku, ma scatenerebbe una guerra economica da cui uscirebbe piegata. Mi preoccupa di più Taiwan, perché là gli obiettivi cinesi sono tali che potrebbe decidere di rischiare una guerra, in certe circostanze».
Come si evita?
«Non credo sia prevenibile, nel senso che c’è un passo ovvio da compiere per risolvere il problema una volta per tutte. Solo Cina e Taiwan possono trovare un modus vivendi duraturo. Noi però dobbiamo essere sicuri che Pechino comprenda che abbiamo molte opzioni, militari ed economiche. Si dice che dobbiamo mantenere l’ambiguità strategica di non far capire alla Cina se siamo pronti ad intervenire militarmente per salvare Taiwan, ma di sicuro non dobbiamo essere ambigui sul fatto che la risposta economica sarebbe devastante, anche a rischio di rallentare la nostra crescita».
La Corea del Nord come si ferma?
«All’inizio pensavo che la diplomazia personale di Trump non fosse così cattiva, ma è fallita perché entrambi sono rimasti su posizioni massimaliste: lui voleva che Kim rinunciasse a tutte le atomiche, mentre Kim voleva concedere solo lo smantellamento di piccole strutture del reattore di Yongbyon. Un progresso possibile sarebbe congelare le atomiche nordcoreane al livello attuale, senza riconoscerla come potenza nucleare, e in cambio alleviare un po’ le sanzioni».
L’Iran?
«È difficile. Si potrebbero concordare limitazioni delle attività nucleari a più lungo termine dell’accordo Jcpoa, senza includere gli altri comportamenti inaccettabili di Teheran in Medio Oriente, e togliere progressivamente le sanzioni, ma a questo punto non so se c’è lo spazio per un’intesa».
Lei chiude il libro dicendo che per tornare forte, l’America dovrebbe ritrovare uno proposito nazionale condiviso. È ancora possibile, dopo l’assalto al Congresso del 6 gennaio?
«La nostra democrazia è in crisi, e lo sarà almeno fino a quando non vedremo il risultato delle presidenziali del 2024. Questa crisi ha molte dimensioni, ma la principale è la disuguaglianza, che ha portato alla fine del sogno della classe media, generando la rabbia che ha alimentato il populismo. Ricostruirlo è il rimedio principale. Biden ci sta provando, anche se il programma Build Back Better è stato bloccato, però mette troppa enfasi sui benefici offerti ai cittadini, e troppo poca sulla creazione del lavoro. Io invece credo che si debba puntare soprattutto sul lavoro, che dia insieme dignità e sicurezza finanziaria. È il consiglio che gli darei, se me lo chiedesse».