La Stampa, 28 dicembre 2021
L’arte del riciclo
Il tavolo da cui sto scrivendo è stato recuperato da un cassonetto dell’immondizia. Chiunque mangi sopra questo solidissimo rettangolo di legno di mogano, che una volta usai come rifugio durante le scosse di terremoto, non sospetta la sua provenienza. È un tavolo antico, senza viti né chiodi, tenuto insieme da incastri a spinatura tonda, lavori artigianali che ormai si fanno poco. Il mio falegname di fiducia, conoscendo i miei gusti e sapendo che dovevo arredare una cucina nuova, mi telefonò dicendomi di aver trovato questi pezzi di tavolo in un cassonetto e si è proposto di aggiustarlo per una miseria. Addossato alla parete di fronte, un altro mobile recuperato sempre fra le cose che gli altri non vogliono più; camminavo con un amico per via Appia, a Roma, quando ci imbattemmo in questo meraviglioso comò di legno, pieno di cipolle e, mi resi conto giorni più tardi, scarafaggi. Siccome nessuno dei due aveva la macchina, decidemmo di caricarcelo sulle spalle e trasportarlo in metropolitana (esiste un documento fotografico, con uno dei primi cellulari dotati di fotocamera) e oggi troneggia verde come un ranocchio nel mio salotto.
In certe città degli Stati Uniti, i mobili vengono lasciati per strada perché chi ne ha bisogno possa prenderli. Pensavo che alcuni miei vicini di casa fossero dotati dello stesso spirito samaritano, ma in realtà ho poi scoperto che erano solo dei cafoni che non avevano pagato il servizio di smaltimento. Quando si sente parlare di riciclo, vengono in mente quelle comunità di persone che vivono nei boschi, vestono in iuta e mangiano sementi, dunque ci appare come una cosa lontana dal nostro modo di vivere, per noi che siamo stati educati da borghesi, che le cose devono essere nuove perché più igieniche e senza alcuna storia (o peggio: maledizione) impressa nei nodi del legno. Riciclare significa in realtà far continuare una storia destinata a finire, dare un cognome a una nuova vita che a sua volta avrà la possibilità di consegnarlo a un’altra vita. Non è dopotutto l’eredità la forma più organizzata e nobile di riciclo?
Qualche anno fa con un gruppo di amici facevamo delle riffe all’insaputa di parenti e amici con cui avevamo condiviso il natale e dunque i regali: quelli orrendi che non volevamo, o se erano cose che possedevamo già, finivano nel mucchio e chi prendeva il numero era costretto a prendersi il regalo orrendo. A volte erano cose che al malcapitato servivano davvero, come stravaganti abat-jour a forma di fenicottero perfetti per la camera dei bambini. Nulla così andava perduto e invece di finire nell’indifferenziata, un purgatorio che non auguro nemmeno alla peggior monnezza, finiva a popolare le nostre case, le nostre borse, e gli attribuivamo un valore affettivo perché quell’oggetto lo avevamo vinto in una serata allegra fra amici. Immagino le riffe che fanno le maestre dei nostri figli, costrette a doversi sorbire penne usb con i loro nomi fingendo che sia la cosa che più desideravano al mondo.
Riciclare, poi, è etico e va di moda. Il riciclo creativo è una cosa che chiunque abbia un po’ di dimestichezza con le faccende manuali e del tempo libero si diletta a fare e questo lo sa soprattutto chi ha figli piccoli: le giornate invernali sono lunghe, perché non ridare nuova vita a quella bottiglia d’acqua travestendola come Elsa di Frozen? —