La Stampa, 28 dicembre 2021
Intervista a Will Smith
Nel viaggio di un padre e delle sue due figlie divenute stelle mondiali del tennis, il divo Will Smith, tra i più potenti e pagati del globo, ha intravisto qualcosa che gli appartiene nel profondo. In quel genitore, Richard Williams, deciso a far entrare Serena e Venus nell’Olimpo dei tennisti, l’attore, rapper, produttore cinematografico, vincitore di quattro Grammy Award, due volte candidato all’Oscar, ha ritrovato i segni di una paternità controversa e discutibile, simile a quella sperimentata in prima persona, nel suo ruolo di figlio. In questi ultimi mesi Will Smith è protagonista di Una famiglia vincente – King Richard (nei cinema il 13 gennaio con Warner Bros) e di Will (Longanesi), il volume autobiografico, scritto con il blogger Mark Manson, in cui ricostruisce la storia della sua vita e della sua affermazione partendo proprio dal rapporto difficile con il padre, «Papo», come lo chiama nelle 422 pagine del libro. Nel film, diretto da Reinaldo Marcus Green, interpretato da Saniyya Sidney (Venus), Demi Singleton (Serena), Aunjanue Ellis (la madre Oracene), si legge, oltre la ricostruzione del fenomeno sportivo, oltre la favola bella di una famiglia semplice che tocca il miraggio del successo, il desiderio marcato di guardarsi allo specchio, di fare i conti con l’eredità di un’infanzia tormentata: «Mio padre – ha detto Will Smith durante la presentazione della biografia a Filadelfia, la città natale, con Queen Latifah in veste di spalla e intervistatrice – è stato, allo stesso tempo, la massima fonte di dolore e la massima fonte di gioia».
Da dove è nato il desiderio di raccontare la storia della famiglia Williams?
«Circa vent’anni fa ho visto in tv un’intervista a Venus che, allora, aveva circa 14 anni. Mi aveva colpito il suo sguardo, nei suoi occhi si leggeva la certezza che, con suo padre accanto, una specie di leone pronto ad azzannare chiunque provasse a farle del male, non avrebbe mai avuto nulla da temere. Quando il giornalista della Abc le fa notare, con una nota cinica, che sarebbe stato molto difficile battere l’avversaria, Richard Williams entra in campo, interrompe l’intervista, e ricorda al cronista l’età di Venus. In quel momento ho desiderato che mia figlia potesse sentirsi allo stesso modo. Se accetto una parte è sempre per imparare qualcosa di nuovo, per esplorare un territorio sconosciuto, stavolta il personaggio di Richard mi ha fatto capire che c’è un altro modo per essere genitori».
Qual è, secondo lei, il fulcro del film?
«Non è un film sul tennis, ma sulla fede, sulla famiglia, sull’amore e sul trionfo. Nel racconto c’è una strana combinazione di temi, si parla di tennis e delle tenniste più famose del mondo, ma il tennis non è l’argomento centrale della narrazione. Mi è capitato altre volte di raccontare storie di persone divenute celebri, ma mi sono sempre reso conto che il fulcro, più che nei traguardi raggiunti, è nelle famiglie e nelle individualità che le compongono».
Qual è l’aspetto più importante che emerge dalla vicenda di Venus e Serena Williams?
«La storia di Richard e dei suoi parla del sogno americano, ci sono pochissimi Paesi sulla terra in cui Venus e Serena avrebbero potuto sfondare, il film mette in luce la tensione nel superare i nostri limiti, dicendoci che la possibilità di oltrepassarli sta tutta nella nostra forza d’animo».
Quella di Richard Williams è una figura molto discussa, piena di ombre. Come ha affrontato questi aspetti del personaggio?
«Penso che Richard sia stato frainteso in modo selvaggio, mi è piaciuto poter restituire umanità a un personaggio che è stato demonizzato. Secondo me era un genio, Richard aveva profetizzato tutto. Dopo aver visto, due anni prima della nascita delle figlie, una partita di tennis in cui Virginia Ruzici aveva vinto un premio di 40 mila dollari, aveva scritto i piani per la carriera di Venus e Serena».
Le due sorelle avrebbero potuto sentirsi in gabbia, con il loro futuro già determinato dal padre. Che cosa ne pensa?
«Non credo che in quella famiglia nessuno si sia mai sentito intrappolato, le menti erano libere, non c’è mai stata la sensazione di essere ingabbiati da qualcosa che non fosse la capacità di impegnarsi, lavorare sodo, amarsi. Un sistema di principi che si è rivelato potente e incredibilmente produttivo».
Come si è preparato per interpretare Richard Williams?
«Ho cercato di seguire il suo percorso, Richard non sapeva nulla di tennis, lui e la moglie hanno appreso le regole del gioco da autodidatti. Per interpretare qualcuno, l’attore ha sempre bisogno di coglierne le caratteristiche principali. Per diventare Richard ho preso spunto dal rapporto con mia figlia Willow, cercando di dedicarle lo stesso spazio che lui ha dedicato a Venus e a Serena, senza esagerare, ma usando la sua stessa determinazione».
Che cosa significa per lei essere padre?
«È l’impegno in cui ho concentrato il massimo della passione, ho fatto di tutto per essere all’altezza del compito, per cercare di modellare persone capaci di sentire la responsabilità della comunità di cui fanno parte. Ho avvertito il desiderio di essere capofamiglia fin da bambino e, quando è nato il mio primo figlio, ho sentito subito l’immensa responsabilità di quella giovanissima vita, ho pregato per riuscire ad essere un buon padre». —