La Stampa, 28 dicembre 2021
Ettore Sottsass racconta sé stesso
Una giornata di Ettore Sottsass raccontata da se medesimo. Dalla «mattinata milanese grigia e nebbiosa» in cui si chiede «perché dovrei uscire da questo dolce letto per cercare soldi»; al sopralluogo dal committente che «Signor architetto dove dobbiamo mettere le tende?»; e infine l’intervista nel pomeriggio con la giornalista svizzera e il fotografo che lo prega «Può sorridere? Solo un po’ signor Sottsass». «No non credo di potere sorridere».
Sono un po’ diario, un po’ racconto, un po’ pensiero filosofico, artistico e certamente poetico gli scritti contenuti in Di chi sono le case vuote?, ultimo libro della trilogia Adelphi che ci mostra come usasse altrettanto bene la penna che la matita. Ci dicono che dietro l’architetto e designer «figo internazionale» – come da definizione di un’amica nel libro Perché morte non ci separi della moglie Barbara Radice – il nome che identifichiamo con forme e colori di Memphis, la libreria Carlton, la Valentine Olivetti, gli oggetti Alessi e altre centinaia di cose fra lampade, vetri e ceramiche, ci sia uno scrittore. Ironico, raffinato, con il registro duttile di chi non «fa» l’intellettuale ma dimostra di esserlo nel testo scritto per una conferenza al Met, a Weimar o nella descrizione della «pennichella», quarto d’ora di pausa da cui «ricominciare più o meno da zero a prendere le distanze che esistono sempre tra me e il paesaggio, tra me e le luci accecanti, tra me e i suoni esagerati, tra me e le temperature ostili…».
Ma per sapere quale sia la vera risposta a quel Di chi sono le case vuote? del titolo si può solo provare a chiedere a Barbara Radice, la moglie che gli è stata accanto negli ultimi trent’anni di vita (prima, è noto, era sposato con Fernanda Pivano) e ci riceve in quella che è stata la loro casa e ora è studio, col tavolo quadrato foderato di carta e tanti mobili Memphis, il tavolino Hyatt, la lampada Callimaco, armadi e librerie con le ante marezzate.
Alla fine, di chi sono le case vuote? Almeno lei lo sa?
«Continuo a chiedermelo, io amo le case vuote e anche lui, aveva il piacere di tenere tutto chiuso dentro armadi o scatole e avere il vuoto intorno. Ma non credo che c’entri con quel discorso di Ettore. In realtà alla fine resta il punto di domanda e le case veramente vuote forse sono quelle dei nomadi».
In un capitolo parla di bagni e cucine. È vero che a casa d’altri andava a sbirciare i bagni “per pettegolezzo” e invece le cucine come fossero atelier del pittore, luoghi sacri? E la vostra cucina com’era?
«Se lo dice vuol dire che l’ha fatto ma non come “missione”, come “osservazione”. Quanto alla nostra cucina è semplice, simile a quella che avevamo in questa casa, venga a vedere di là… vede… piani in laminato, pensili in legno beige con ante in vetro retinato – forse una memoria trentina? – tavolo albicocca attaccato alla parete».
Ora in Triennale l’attrazione è Casa Lana, donata da lei e ricostruita. È superinstagrammata, se lo aspettava?
«Mi fa piacere perché vuol dire che la gente la vede. E che evidentemente piace Ettore, forse più adesso di quando faceva le cose. Lo specchio Ultrafragola, per esempio, ora è dappertutto, mentre quando è uscito avrà venduto cinque pezzi; come quasi tutto quel che ha disegnato Ettore, non ha avuto grande riscontro commerciale. Credo piaccia alle nuove generazioni perché è un uomo gentile e aperto al mondo».
E Casa Lana perché piace?
«Oggi cosa sono di solito i soggiorni? Il tavolo da una parte, grandi divani dall’altra con grandi cuscini e grandi coffee table in mezzo. Poi uno si siede e la conversazione non c’è più. Qui invece tutto è raccolto, è uno spazio per vivere, sentire musica, scrivere, cioè non è uno spazio per ricevere persone che si siedono e bevono whisky, è un altro modo di vedere la vita. Io penso che la gente senza fare tanti ragionamenti colga questo aspetto più domestico, più privato, che non riguarda la “rappresentanza”, ma la vita stessa».
La pandemia fa riscoprire la casa. Che direbbe Sottsass?
«Non voglio attribuirgli i miei pensieri, che sono meno sofisticati dei suoi».
Ma lei si riferisce a lui al presente, come se gli parlasse.
«Non sono ancora diventata matta ma certo sono la sua più vicina allieva, ho imparato da lui come da mio papà (il pittore Mario Radice, ndr), ho vissuto con lui 33 anni. Sono stata fortunata ad avere due grandi maestri… Quanto alla casa, la gente si è spaventata più di quel che mostra e ci si è protetta dentro. Non ha riscoperto la casa ma la fragilità».
Che pensava, nell’arredo, del mischiare antico e moderno?
«Che è un modo di disegnarsi attorno qualcosa che non sia incollato, di far apparire qualcosa di più lontano. Mai avuto mobili antichi perché non li avevamo ereditati. Non possedevamo dei fratini, sennò li avremmo usati».
Padre pittore, Mario Radice, marito Sottsass: difficile vivere con gli artisti?
«No, ma io sono già nata in mezzo a certe cose. Da piccola papà mi metteva in mano un volume di Braque e Picasso e per me era “il libro delle figure”. La difficoltà è nello stare vicino a una “stazione emittente” molto forte, si corre il rischio di essere assordati».
Siamo in tempo natalizio, gli addobbi erano ammessi?
«Ettore un giorno ha preso un grande vaso di vetro della marmellata e lo ha riempito di palline d’oro. Aveva fatto il suo “Natale in scatola"».
Lei tiene la sua urna in casa. Si progetterà uno spazio sacro domestico? Lei l’ha fatto?
«La casa stessa è uno spazio sacro. Io lo tengo in camera da letto, dalla parte dove dormiva lui, dove aveva già appeso i ritratti dei suoi genitori. Ma queste scatole sono orribili quindi io la copro con stoffe che cambio spesso. Diciamo che gli “cambio il vestito”. Guardi gliela faccio vedere in foto sul telefonino. Vede? Ci ho messo sopra un sasso di Filicudi, delle collane colorate. Una decorazione. Spero che sia una bella cosa». —