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 2021  dicembre 28 Martedì calendario

Parla Jane Rosenberg, illustratrice dei processi Usa

Il suo lavoro è sedersi in prima fila quando la storia scorre e disegnarla. Jane Rosenberg è la disegnatrice che ha seguito tutti i più grandi processi americani degli ultimi anni nelle aule giudiziarie dove ai fotografi è vietato l’accesso. Sul banco degli imputati e sotto la punta della sua matita sono passati tutti, dal boss “El Chapo” al produttore Harvey Weinstein, fino ai poliziotti che hanno ammazzato George Floyd. Spiccato accento newyorchese, voce risoluta come i suoi tratti incisivi, risponde al telefono da Manhattan, New York, dove la Corte sta processando la fidanzata del tycoon pedofilo Jeffrey Epstein. Mentre Jane la disegnava, Ghislaine Maxwell ha cominciato a ritrarla a sua volta: “Era distante solo dieci passi da me”.
Ha provato angoscia quando la Maxwell la ritraeva? 
Una come lei non mi fa paura per niente. Comunque è stato fantastico: mi stava dritta di fronte, e nella mia professione, se un soggetto è vicino, è il massimo, perché di solito i disegnatori della Corte sono seduti alla fine dell’aula. La Maxwell è stata vivace: si chinava verso l’avvocato, si girava verso il fratello, molti imputati si siedono e basta e tu rimani senza dettagli per i disegni. Questo processo ha ritmi serrati: a volte non riesco nemmeno a lavarmi le mani dai colori.
Lei è stata inviata ai più grossi processi americani degli ultimi 40 anni.
Se non lo fossero, non mi pagherebbero per disegnarli.
Che mi dice di “El Chapo”? 
Sua moglie era seduta proprio dietro di me, lui si girava e agitava le mani per mandarle baci. La mia visuale era fantastica.
E Weinstein? 
Non si muoveva, lo vedevo solo di profilo ed ero in terza fila.
Il soggetto più difficile da disegnare? 
Dipende tutto dalla sedia. Se non vedi, c’è solo la tua memoria. Al processo dell’attentatore della maratona di Boston non riuscivo a vedere niente se non la nuca dell’imputato.
Lei si considera anche una giornalista? 
Ovvio.
Quando ha deciso di diventare un’artista? 
Mia madre diceva che pasticciavo tutto il tempo con i pastelli e da allora non è cambiato molto: sono ancora con le matite tra le mani. Ho studiato arte al liceo e al college. Quando ero all’università mi dicevano che il realismo non era più di moda, era finito, era passé, tutti abbracciavano l’astrattismo. Io invece rimanevo a casa, mi mettevo davanti allo specchio e mi ritraevo, continuando a fare quello che amavo: disegnare le persone. Dopo l’università ero una struggling, starving artist, una artista che moriva di fame e lottava per sopravvivere. Copiavo i Rembrandt, vendevo per strada ritratti e illustrazioni ai turisti e non pensavo che l’arte un giorno avrebbe potuto davvero darmi da vivere. Poi ho incontrato un altro disegnatore giudiziario, mi sono guardata allo specchio e ho detto: “I am going for it”, vado a prendermi questo lavoro.
Che anno era? 
Il 1980. Nel 1983 in Alabama ho seguito il processo a John Evans, una condanna a morte su sedia elettrica. Brutale, orribile, un compito emozionale per me. Ogni giorno non sapevamo se la sentenza sarebbe stata emessa. Sono rimasta in prigione tutto il tempo, a mangiare il rancio dei prigionieri.
Qual è la dote imprescindibile per un court artist?
I talenti che non puoi non avere sono attenzione e una sharp memory, una memoria precisa. Devi osservare quanti più dettagli puoi per cinque minuti e fare una bozza che, se completi successivamente, devi riempire con i particolari esatti. Bisogna affrontare la deadline, la consegna per i giornali. La mia più grande paura è non fare le cose immediatamente. O che non osserverò le cose in tempo. Dio, su questo faccio perfino gli incubi di notte e sono brutti sogni che solo un court room artist può fare: che mi diano la sedia sbagliata dietro un muro o una tenda, da cui non vedrò l’imputato. Oppure che dimentico matite e fogli a casa. La sedia perfetta è quella accanto al giudice, che vede tutto: ovviamente non l’ho mai avuta.
Ci racconti una delle sue ultime prospettive difficili.
Quando al processo Maxwell hanno portato in aula il tavolo dei massaggi di Epstein stavo ritraendo altro e ho subito abbandonato il disegno per cominciarne uno nuovo. Poi hanno esteso il tavolo e ho dovuto ricominciare tutto daccapo. Le cose succedono di corsa e devo fare il meglio che posso col tempo che ho. Poi devo fotografare i disegni e spedirli subito.
Lei ama disegnare anche lontano dalle corti giudiziarie: è una paesaggista en plein air.
La mia arte “all’aperto” soffre perché la court room art occupa la maggior parte del mio tempo e poi la pandemia ha cambiato New York. Non mi sento più sicura a perdermi per la città insieme alla mia tavolozza, per le strade il crimine è aumentato, quindi devi prestare più attenzione a ciò che ti circonda che a quello che disegni. Di solito andavo al Village, a Central Park o rimanevo nel mio quartiere, nell’Upper West Side, ma col Covid tutto è cambiato. Credo di dovermi innamorare di nuovo, artisticamente, di Manhattan.
Cosa metterà su tela quando pandemia e processi saranno finiti? 
Alla mia finestra c’è un panorama che mi interessa abbastanza da ridipingerlo over and over again, ancora e ancora. Però poi guardo il foglio e dico “qui ci starebbero bene delle persone”.