il Giornale, 28 dicembre 2021
Il fenomeno del Cute
Gattini che giocano con i gomitoli. Barboncini che suonano il pianoforte. Acrobazie di infanti grassocci. Sono soggetti da milioni di click sulle piattaforme sociali. Perché? Perché sono carini. Il Carino (in inglese Cute) è una categoria che ha conquistato il mondo. Fateci caso. Lo trovate nella pubblicità, nel cinema, nei cartoni animati, nei fumetti, sui giornali, ovunque vi sia necessità di attirare l’attenzione del pubblico con qualcosa di soffice, morbido, rassicurante. Almeno in apparenza. Perché nella realtà le cose stanno un po’ diversamente. Il Carino, il Cute, ha un ampio spettro di significato, e va dal tenero fino al Perturbante. O perlomeno così sostiene il filosofo inglese Simon May, che ci offre una carrellata tanto gustosa quanto inquietante di immagini che sembrano fatte per infonderci tranquillità, e invece significano ben altro. Il suo libro s’intitola Carino! e ha per sottotitolo «Il potere inquietante delle cose adorabili» (Luiss University Press, pagg. 168, euro 12; traduzione di Chiara Veltri).
Heidi, l’opossum strabico dello zoo di Lipsia, dal 2010 in poi ha avuto milioni di visitatori virtuali, e ha attirato decine, forse centinaia di migliaia di turisti reali solo perché, così fragile e indifeso, suscitava sentimenti di protezione e accudimento (ma è morto lo stesso). Il personaggio di Hello Kitty, la gattina senza bocca, nato in Giappone nel 1974, è divenuto un logo planetario applicato a ogni sorta di merce, dall’abbigliamento ai videogiochi. Un pupazzo del cinema come E.T. ha mosso a compassione generazioni di bambini e di adulti. O forse, potremmo dire, di adulti-bambini.
Il Cute ha molto a che fare con un processo di regressione all’infanzia, lo stesso per cui gente che ricopre ruoli sociali altisonanti e che tiene in pubblico atteggiamenti paludati utilizza nelle comunicazioni via smartphone gli stessi futili emoji che si scambiano fra loro i dodicenni.
Non è stato sempre così. L’andazzo ha cominciato a prevalere nel Secondo dopoguerra, negli Stati Uniti, in Europa, e soprattutto in Giappone. Basta guardare a come si sono trasformati i cartoni della Disney. Topolino negli anni Trenta aveva il muso aguzzo e le gambe magre, a poco a poco i disegnatori lo hanno arrotondato, reso più tondo e bonario nei tratti. Varie ricerche nei campi dell’etologia, della biologia e dell’antropologia hanno portato alle stesse conclusioni: l’uomo è attirato benevolmente da figure con la testa grande, occhi grandi, guance paffute, gambe corte e grassocce. Tutto ciò che stimola l’istinto della cura. Walt Disney lo disse esplicitamente ai suoi disegnatori: «Make him cute!», fatemelo carino. La Nuova America aveva bisogno di eroi bonari e affidabili. Il Giappone ha fatto ancora di più. Ha inventato uno stile basato su una precisa tonalità emotiva: il kawaii. È un sinonimo di Cute: grazioso, buffo, indifeso. Pervade i manga e gli anime, i fumetti e i cartoni del Sol Levante, fin dagli anni Ottanta. E ha preso piede ovunque, anche qui.
Ma quello sui cui punta il dito Simon May, e che possiamo tutti verificare con un po’ di attenzione, è l’ambivalenza del concetto. Non cita, lo facciamo noi, uno dei più grandi successi al cinema negli anni Ottanta: Gremlins, di Joe Dante. Adorabili creaturine si trasformavano in mostri cruenti. Una commedia horror regolarmente riproposta a Natale, fra l’altro. La linea fra il Cute e il mostruoso è molto più sottile di quanto s’immagini.
E.T. è allo stesso tempo giovane e vecchio, aggraziato e sproporzionato, bambinesco e rugoso. Minime variazioni farebbero di lui un mostro ripugnante, alla Alien. Quanti anni ha? Di che sesso è? Non lo sappiamo. Idem per la scultura a barboncino di Jeff Koons: sembra fatta di palloncini, è tutta di un minaccioso acciaio inossidabile.
La metamorfosi del Carino è sempre dietro l’angolo. L’amichevole diventa minaccioso; l’innocente, crudele; ciò che è ingenuo si fa scaltro; quanto sembrava certo, diviene sfuggente. E infatti simboli di frivola gentilezza se ne trovano perfino sulle carlinghe degli elicotteri militari giapponesi (forse memori del fatto che la bomba atomica su Hiroshima si chiamava Little Boy, cioè «ragazzino»). Ecco allora che l’estetica del carino copre il gioco del Potere. Ci avete fatto caso? La dinastia nordcoreana dei Ciccio Kim propina ai sudditi l’icona di padri della patria paffuti e distesi.
Un’altra caratteristica del Cute è la desessualizzazione dell’oggetto. Il Topolino prima maniera oggi forse sarebbe al fresco per violenza sessuale a Minnie. Ma ciò che è carino fa rima con ciò che è bambino, e la sacralizzazione dell’infanzia, dal secondo Novecento in poi, ci ha messo del suo. Il Cute ha sopravanzato il Kitsch, che è però solo espressione innocua di cattivo gusto, artificio che tende a bloccare ogni pensiero negativo. Un gattino che gioca non è Kitsch, è Cute. Provate a immaginarlo quando gioca con una preda, prima di divorarla.