Il Messaggero, 28 dicembre 2021
Intervista ad Amos Gitai
Dopo quattro film, una pièce teatrale e una mostra al MAXXI di Roma, il regista israeliano Amos Gitai, 71 anni, è tornato a parlare di Yitzhak Rabin, l’ex primo ministro israeliano assassinato nel 1995 da un colono ebreo estremista. E lo ha fatto, stavolta, con un libro, Yitzhak Rabin. Cronache di un assassinio (edito da La Nave di Teseo): una raccolta di saggi e fotografie che ripercorrono il rapporto viscerale tra l’artista – da sempre considerato la voce contro di Israele – e il politico, insignito del premio Nobel per la pace un anno prima di essere assassinato.
Quattro film, una pièce, una mostra su Rabin. Perché un libro?
«Ho voluto sperimentare il racconto attraverso diversi mezzi di comunicazione. Il brutale assassinio di Rabin, accaduto 25 anni fa, è stato uno shock non solo per Israele, ma per tutto il Medio Oriente. L’idea del libro mi è venuta parlando con Alberto Barbera (direttore della Mostra di Venezia, ndr), che aveva selezionato al festival il mio film, Laila in Haifa. Sentivo che su Rabin dovevo dire ancora qualcosa. Anche a distanza di anni, il modo più efficace per fare opposizione nel mio paese è perpetuare il ricordo di un uomo morto».
Ed è un fatto positivo o negativo?
«Non è necessariamente una cosa negativa. Credo che il cambiamento si possa ottenere anche grazie al ricordo, alla memoria, alle idee. Non solo con il denaro o con le guerre».
Le piace Naftali Bennett, l’attuale Primo Ministro Israeliano?
«Non ho votato per lui e non è un segreto. Non penso che si possa marginalizzare la necessità di un dialogo con i palestinesi. Ecco perché torno sempre a Rabin, perché è stato l’unico leader israeliano che ha provato a ottenere una coesistenza vera tra Israele e Palestina. Non era uno che si accontentava di fare accordi con gli Emirati».
Cosa salva della situazione politica attuale?
«Il fatto che Netanyahu non sia più al potere ci dà una buona ragione per respirare. Mi auguro che accada lo stesso ai miei amici brasiliani, ungheresi e americani».
Nel suo libro parla di soap opera infinita del Medio Oriente. A che punto siamo?
«Sempre allo stesso punto. Solo con Rabin, in Medio Oriente si discuteva ogni questione: il ritorno dei palestinesi a Gerusalemme, i confini, l’acqua, i soldi. Tutto. Si parlava di tutto. Dopo la sua morte, non è più successo».
Si considera ancora un ottimista?
«Come ho sempre detto, essere pessimista è un lusso che non posso permettermi».
Ma i giovani israeliani conoscono Rabin?
«Immagino che non ne sappiano tantissimo, e questo ci riporta all’importanza della memoria. Guardiamo alla Spagna, il cui primo ministro ha deciso di spostare le ossa del dittatore Franco dal mausoleo a un cimitero normale. Lo ha fatto grazie alla memoria che scrittori, registi, artisti, pittori hanno tramandato della guerra civile, e delle brutalità commesse da Franco. La memoria ritorna, ci mette un po’ ma torna. Non è una cosa istantanea. E noi abbiamo l’obbligo di coltivarla, di lasciare tracce. Picasso lo ha fatto. Alain Resnais lo ha fatto. Gli artisti devono seminare frammenti che aiutino la memoria a tornare».
Per coltivare la memoria nell’epoca dello streaming, non servirebbe una serie tv su Rabin?
«Certo. Sarebbe un modo per rendere più largo e condiviso il ricordo. Ma dovrebbe invitare gli spettatori a diventare interpreti, non solo consumatori di quella storia».
Lei la farebbe?
«Solo se il progetto non scadesse nel kitsch. Il problema della tv è che ha standard bassi. Non vorrei ritrovarmi in prima serata o in piattaforma insieme ai reality sulla chirurgia plastica. Ci vorrebbe un progetto insieme poetico, storico e musicale. Una cosa molto oculata».
Mosche Zonder, showrunner israeliano della serie Netflix Teheran, ha detto che la tv avvicina i popoli. Ci crede?
«Non ne sarei così sicuro. Serie come Teheran o Fauda sono famose in tutto il mondo, non lo metto in dubbio. Ma siamo proprio certi che abbiano tutto questo potere?».
Come regista a quali progetti sta lavorando?
«Un nuovo film, Shikun, incentrato su una ventina di persone che vivono in una casa nel deserto. E poi sto sviluppando una serie, un progetto storico che sarà girato in parte in Italia, in parte in Israele. Siamo ancora in fase di sviluppo».
Di che parla?
«È la storia di Doña Grazia Mendes, ebrea convertita dall’Inquisizione, che visse nel sedicesimo secolo nel ghetto di Venezia. So che il mio produttore italiano, Francesco Melzi (Good Film, ndr) ha parlato con il ministro Dario Franceschini. Stiamo lavorando a pieno regime perché il progetto possa diventare realtà».
Qual è il più grande Insegnamento che ci lascia Rabin?
«L’urgenza di cercare una convivenza e la pace in Medio Oriente. Dobbiamo continuare a lavorarci, sempre. Anche se forse non ci riusciremo mai».