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 2021  dicembre 28 Martedì calendario

La frenata dell’economia cinese

È di ieri la notizia che l’economia mondiale supererà per la prima volta i 100.000 miliardi di dollari nel 2022, con due anni di anticipo rispetto alle previsioni. A fare i conti è il londinese Centre for Economics and Business Research, secondo il quale la Cina strapperà agli Stati Uniti lo scettro di prima economia al mondo nel 2030, con 24 mesi di ritardo sui calcoli precedenti. Ma come andrà l’economia cinese nell’anno che si sta aprendo? E quale il contributo al bilancio mondiale? A metà dicembre la Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma (Ndrc) ha annunciato gli obbiettivi economici di Pechino per il 2022. La parola d’ordine è stabilità. E per promuovere «lo sviluppo stabile dell’economia reale», ha spiegato il premier Li Keqiang, saranno incrementati gli incentivi fiscali e il sostegno ai protagonisti del mercato.
IL BISOGNO DI STABILITÀ
Perché tanto bisogno di stabilità? Se nella prima parte del 2021 avevamo assistito a un repentino recupero economico, trainato dalle esportazioni conseguenti la riapertura delle economie degli altri Paesi e sostenuto da robusti investimenti, nella seconda metà dell’anno l’economia cinese ha subito l’effetto della crisi di Evergrande, uno dei maggiori gruppi immobiliari del Paese. Il rischio di un default a catena ha scosso il sistema finanziario e ha minato la fiducia nel settore immobiliare, riducendo così gli investimenti in quel settore che è ancora un importante motore della crescita cinese: secondo Rogoff and Yang, il settore insieme a quello delle costruzioni incide per il 29% sul Pil nazionale. Le recenti interruzioni nella fornitura di energia elettrica e il rallentamento degli investimenti negli immobili, collegato alle attuali politiche finalizzate a ridurre la dipendenza dell’economia dal quel settore, hanno però finito per gravare sulla crescita. Secondo l’Ocse, per il momento i consumi interni sono stabili ma risentono del senso di sfiducia e non sono sostenuti da forme di protezione sociale adeguate, sicché a fine anno la crescita finale si attesterà all’8,1% contro previsioni più ottimistiche, mentre il rallentamento proseguirà nel prossimo biennio con un trend del 5,1% medio.
Anche il Fmi pone l’accento sul rallentamento della crescita cinese. Il Fondo prevede che la Cina chiuderà il 2021 con una crescita annua dell’8%. Nel 2022, invece, la Repubblica Popolare secondo il Fmi crescerà del 5,6%: ma sempre di frenata si tratta. 
Va detto che la regolamentazione del settore tecnologico ad opera del governo, pensata per rafforzare la competizione, evitare i monopoli e stabilire il controllo sui profitti derivati dai dati, ha contribuito a creare un clima di incertezza politica. La minore produttività risente della pressione del disallineamento tra l’economia cinese e quella Usa, oltre che del restringimento della forza lavoro conseguente all’invecchiamento progressivo della popolazione. A fine ottobre 2021 l’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) ha diffuso l’ultima Trade Policy Review of China, l’ottava da quando nel dicembre di 20 anni fa la Repubblica Popolare è entrata a far parte dell’organizzazione. Un ingresso che si pensava avrebbe contribuito all’apertura economica e al progresso in senso democratico della Cina.

L’USO SCORRETTO DEI SUSSIDI
Ma niente di questo si è realizzato. L’uso dei sussidi statali alle imprese e le pratiche che hanno effetti distorsivi sul mercato non sono cessate. Anzi, il quadro descritto dal Wto è ancora più fosco del passato perché un certo numero di Paesi, tra cui Stati Uniti, Australia, Giappone, India, ha colto l’opportunità offerta dallo strumento diplomatico per reagire ai tentativi cinesi di sfruttare la coercizione economica, come i bandi alle importazioni usati in maniera strategica, al servizio dei propri obiettivi geopolitici. L’Europa su questo fronte sottolinea il furto di proprietà intellettuale da parte cinese, i trasferimenti forzati di tecnologia e la localizzazione dei dati, l’eccesso di capacità industriale in settori come quello siderurgico e il relativo dumping delle esportazioni.
La nuova postura di Bruxelles verso Pechino ha portato alla sospensione dell’accordo che avrebbe dovuto agevolare gli investimenti cinesi in Europa e le aziende europee in Cina (Cai). Bruxelles ha assunto un atteggiamento più duro verso la Repubblica Popolare a causa in particolare delle violazioni dei diritti umani. Di recente, la Commissione europea ha presentato il Global Gateway, progetto da 300 miliardi di euro di investimenti tra il 2021 e il 2027 a sostegno della ripresa globale che, seppur limitato rispetto alla Via della Seta, si pone come alternativa geopolitica ai grandi piani infrastrutturali di Pechino.

IL MEMO SULLA VIA DELLA SETA
Un’inversione a U era arrivata a inizio 2021 anche dal governo italiano guidato da Mario Draghi, rispetto alla stipula del Memorandum con cui Roma nel 2019 aveva aderito alla Nuova Via della Seta, accordo che era stato più politico che di sostanza. Stati Uniti ed Europa restano tuttavia la principale destinazione delle esportazioni cinesi. Anzi, nel 2020 la Cina è stata per la prima volta il partner principale dell’Ue nel commercio di beni, ma la bilancia commerciale si è ulteriormente deteriorata a discapito degli europei. Secondo l’Unione, i livelli di investimento reciproci non hanno ancora raggiunto il loro potenziale.
L’Europa è intenzionata a diminuire la dipendenza dalla Cina investendo in ricerca e innovazione nei settori delle telecomunicazioni, del cloud computing, dell’estrazione di terre rare, della produzione di semiconduttori e microchip. Un’altra preoccupazione espressa dall’Europa è che la strategia sulla doppia circolazione contenuta nel 14° Piano Quinquennale possa influenzare l’ambiente economico nel quale operano le imprese europee. Il rischio è una chiusura di Pechino sul proprio mercato interno. La ricerca dell’autarchia tecnologica compresa nella strategia potrebbe portare a un allontanamento dalle dinamiche globali.
Di qui la valutazione di Jens Ehrhardt, fondatore e presidente di Dje Kapital Ag, secondo il quale per le Borse il cigno nero del 2022 potrebbe essere il Dragone tra rischi di impoverimento economico a causa della crisi immobiliare e timori per una strategia zero-covid che di fatto renderebbero meno solido il Pil cinese.