Corriere della Sera, 27 dicembre 2021
Intervista a Cat Stevens (ora si chiama Yusuf)
Era il 1971 quando Yusuf/Cat Stevens, allora solo Cat Stevens, pubblicava Teaser and the Firecat, uno dei dischi che contribuirono a lanciarlo. Qualche anno dopo, all’apice del successo, la conversione all’Islam lo allontanò a lungo dalla musica. Oggi il cantautore britannico ha 73 anni e celebra quel disco con una riedizione: la racconta sorridente (e in maniche corte) dalla sua casa di Dubai.
Com’è stato riprendere in mano quelle canzoni?
«È sempre una festa riguardare il proprio lavoro, specie una pietra miliare come è stato per me Teaser and the Firecat. Iniziava il periodo dei cantautori e avevo davanti una nuova onda di ispirazione».
In che modo questo disco è rilevante oggi?
«Se le mie canzoni hanno superato la prova del tempo è perché trattano temi che tutti dobbiamo affrontare: che sia l’amore, la spiritualità o l’ecologia, sono sempre valide».
La sua «Peace Train» ha 50 anni, così come «Imagine» di John Lennon: quegli ideali sono falliti?
«Se penso a Peace Train direi che il treno non ha ancora lasciato la stazione. Vivere con gli altri è sempre una sfida. La domanda è: chi ha fallito? Non credo che noi abbiamo tradito i nostri ideali né abbassato le aspettative. Ma ci sono questioni pratiche e la politica purtroppo si mette nel mezzo delle aspirazioni».
Come vede l’attivismo dei giovani sulla crisi climatica?
«Sono grande fan di Greta Thunberg, è come se le mie canzoni fossero state scritte per persone come lei. Il modo in cui l’economia mondiale è sbagliata rende difficile invertire la rotta. Ma c’è speranza nelle nuove generazioni».
Come è cambiata invece la musica?
«È diventata incredibilmente industrializzata. Si parla in modo generico di hip hop, ma è un po’ come far uscire soldi da una macchina. Negli anni 60 c’era più libertà e tutte le porte erano aperte».
Che ruolo ha avuto la musica nella sua spiritualità?
«È stata la barca che mi ha permesso di compiere il mio viaggio. Ma quando ho raggiunto la terra, il mezzo non era più così importante e l’ho lasciato a riva. Stavano accadendo tante cose nel mondo e le persone stavano diventando molto polarizzate. Per tanti musulmani la musica rappresentava la vita occidentale, una vita che intaccava lo spirito, e io non volevo avere a che fare con nulla di sbagliato. Ho imparato dopo che la musica non è stata affatto rappresentata così, basti vedere che la chitarra si è diffusa con i musulmani in Andalusia».
A 21 anni è stato malato di tubercolosi. Che ricordo ha?
«Sono stato tolto dalla vita sociale e isolato in ospedale. Ho usato quel periodo per scavarmi dentro: ho rischiato la morte e non volevo andarmene così presto. Volevo anche capire cosa potesse esserci oltre questa vita. È proprio così che è iniziata la mia ricerca, anche se ho sempre sentito qualcosa di divino».
Quell’isolamento le è stato di aiuto per la pandemia?
«Ho tanti progetti qui nella mia bolla. Certo, una bolla assolata. A Dubai ho una vita semplice, in famiglia. Sono circondato dai nipotini e ho una piccola piscina in cui nuoto ogni giorno. Mi sento creativo, sto finendo un disco e un libro. Anche con Facebook e Instagram c’è da fare».
Apprezza i social?
«Li trovo incredibili. Un tempo non avevamo nulla di simile. Certo, possono essere pericolosi, ci sono persone che provano a manipolare il sistema, come Trump ha mostrato in modo eccellente».
Ripensando alla sua «Father and Son» si sente più vicino al padre, oggi?
«Non ho nulla a che fare con il padre, sono sempre stato il figlio. Da nonno ho accumulato un po’ di saggezza, ma continuo a capire il punto di vista del bambino. Forse sono solo più equilibrato».