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 2021  dicembre 27 Lunedì calendario

Intervista a Filippo Tortu

Gaia Piccardi
L’eroe della staffetta: «L’abbraccio più bello con Chiellini»

Molto prima di decollare dalla Brianza alla volta di Tokyo e del libro dei record olimpici, questa storia comincia sul lungomare di Golfo Aranci, in Sardegna, circa cinque lustri fa. Nella cartolina a colori che arriva dal passato per spiegare molte cose del presente c’è papà Salvino, ex velocista di Tempio Pausania, che al primo appuntamento sfida mamma Paola in una corsa lunga cento metri. Paola è perplessa, Salvino insiste: «Dai, proviamo, ti do 50 metri di vantaggio...». Lei vince, lui ha un sorriso grande così: voleva verificare la reattività dei piedi della futura madre di suo figlio Filippo, che la sera del 6 agosto 2021 avrebbe vinto da ultimo staffettista la medaglia d’oro nella 4x100 ai Giochi di Tokyo mettendo il naso per un centesimo di secondo davanti all’inglese Mitchell-Blake. Quinto oro dell’atletica dei miracoli, decimo e ultimo della strepitosa spedizione (40 medaglie) dell’Italia in Giappone.
Piè Veloce nasce in quel momento, da un pensiero creativo affacciato sul mare sardo, e molti anni e una pandemia dopo (anche il lock down ha un suo ruolo in questa storia: con il pianeta chiuso per Covid, Tortu junior si è allenato in un bosco dietro la villetta di Costa Lambro, in Brianza, dove vive) quel pensiero diventa il terminale di una cantilena bellissima – Lorenzo Patta, Marcell Jacobs, Fausto Desalu, Filippo Tortu – che ha assordato il mondo e di nuovo annichilito, ventisei giorni dopo il trionfo dell’Italia di Mancini all’Europeo di calcio, la Gran Bretagna (che scoprirà un caso doping, Chijindu Ujah, in squadra).
Filippo, un oro olimpico, vinto in quel modo, cambia la vita?
«Sì, la cambia. In aspetti che non reputo fondamentali (mi riconoscono, faccio più cose, giro per eventi con la medaglia in tasca), perché la sostanza è rimasta la stessa. Al contrario, c’è un cambiamento importantissimo che faccio fatica a riconoscere a me stesso: sono campione olimpico. Ancora oggi, mi fa strano dirlo».
Perché? Sindrome dell’impostore?
«In un atto di piena riconoscenza ammetto che me lo sono meritato, anche se quello che inseguiva da vent’anni l’oro nell’atletica è il prof Di Mulo, responsabile della velocità azzurra. Io lo volevo e me lo sono preso. Non mi aspettavo di correre così veloce, non ero mai sceso sotto i 9” nella mia frazione. A Tokyo ho fatto una cosa non banale, insomma. Di carattere però sono così, non mi piace vantarmi».
Nemmeno con se stesso?
«Soprattutto con me stesso. Se conosco una ragazza e mi chiede cosa faccio, io rispondo: studio economia alla Luiss. Se lei si spinge oltre, se viene fuori il discorso dell’atletica e lei mi chiede qual è il mio sogno, io dico: partecipare a un’Olimpiade».
Certo che questa ragazza lo scorso agosto era sugli anelli di Saturno per non sapere nulla.
«Eh, magari era in vacanza senza la tv».
Dove tiene la medaglia d’oro di Tokyo?
«L’ho nascosta».
Dove?
«Non posso dirlo. Per i ladri che leggono il Corriere e per scaramanzia. Ho disegnato una specie di mappa del tesoro, tipo: 40 passi a Est, venti a Ovest, gira intorno alla credenza, vai dritto fino al bagno... Mamma, papà e mio fratello Giacomo conoscono il nascondiglio, naturalmente, ma hanno l’obbligo di non rivelarlo nemmeno sotto tortura».
Se le dicessero che a Capodanno i ricordi olimpici svaniranno, se ne potesse salvare uno solo, quale sceglierebbe?
«Se dicessi l’arrivo della 4x100, l’abbraccio con Patta e lo sguardo al cronometro (37”50, nuovo record italiano) per convincermi che è tutto vero, sarei banale. Allora rispondo che non dimenticherò mai i giorni passati prima dei Giochi alla Waseda University di Tokorozawa, a un’ora da Tokyo, sede del ritiro dell’Italia dell’atletica. Rivedo il campo d’allenamento al tramonto, io e papà che mi allena, il frinio fortissimo delle cicale giapponesi, la calma irreale prima della frenesia dell’Olimpiade. Il primo allenamento in Giappone, appena atterrati da Roma, è stato speciale. Non ero felice, di più. Ho pensato: sono all’Olimpiade con mio padre, e di colpo sono tornato bambino».
Veniva da una stagione difficile, Filippo, nella quale non era mai riuscito a correre i 100 all’altezza del suo talento. Come si ribalta un destino, proprio e dell’Italia, in cento metri?
«Per qualche motivo fino a Tokyo trovavo complicato mettere in pratica in gara ciò che di buono facevo in allenamento. Non era un problema tecnico né fisico: stavo bene. Un giorno, in Giappone, parlando con Gimbo Tamberi, ho capito: ero talmente focalizzato sull’obiettivo Olimpiade che nelle altre gare faticavo a sentire la pressione indispensabile per incendiare la polvere da sparo. Non è che mancassero le motivazioni, mancava la scintilla».
Però non ha risposto: come si svolta?
«Se prima dei Giochi mi avessero detto che avremmo vinto l’argento nella 4x100, avrei detto: dove devo firmare? E invece a Tokyo ci siamo ritrovati tutti allineati nel voler vincere, altro che argento. Ogni gara sui 100 ha storia a sé. Al bivio tra vivere o morire, ho acceso la miccia. E pensare che erano giorni in cui il mio umore non era dei più felici, nella gara individuale ero uscito in semifinale con 10”16. Eppure prima della finale della staffetta, al campo del riscaldamento con il prof Di Mulo, me ne sono uscito con una frase così: se mi arriva il testimone giusto, vinciamo noi. Lungo i 300 metri tra la call room e lo stadio avevo un unico pensiero in testa: Filippo è l’ultima volta che fai questa strada in questa Olimpiade, non puoi non lasciare un segno, guai a te se riparti con qualche rimpianto».
L’azione parte dal pensiero, infatti.
«Ma non solo. Ci sono stati altri segni premonitori. Entro in pista a metà della prima curva, non è abituale: ciò significa che per andare al mio posto di ultimo frazionista devo percorrere tutto il rettilineo. Mi giro per salutare Patta, cammino all’indietro per 30-40 metri e non riesco più a girarmi, pazzesco, mi sento come se fossi agganciato ad un magnete. Guardo fisso il traguardo, ipnotizzato. Nel rivedere la mia frazione mi sono accorto che negli ultimi dieci metri alzo le sopracciglia, come se anche quel microscopico gesto abbia potuto contribuire a farmi arrivare davanti all’inglese di un centesimo. Sono andate su da sole, forse per l’impossibilità di trattenere l’emozione che avevo addosso».
Quante volte ha rivisto la 4x100 di Tokyo, da allora?
«Lo ammetto: spesso. La prima volta in vacanza in Sardegna, a fine Olimpiade, una notte che non riuscivo a prendere sonno: l’avrò rivista 50 volte di fila, in loop. Con il risultato di diventare adrenalinico. Notte in bianco».
Per vincere la 4x100 olimpica bisogna essere amici? Con quale degli altri staffettisti ha la relazione migliore?
«Con ciascuno ho un rapporto diverso, e come i campioni del Mundial ‘82 condividiamo una chat. Al villaggio olimpico di Tokyo ho diviso la camera 1104 con Fausto Desalu, il compagno che mi ha passato il testimone. È una delle poche persone con cui sto bene sia parlando molto che non rivolgendoci la parola: significa che il livello di confidenza è alto, cosa che non mi capita spesso. Entrambi eravamo delusi dopo le gare individuali. Ci siamo riscattati insieme».
Squadra che vince, di solito, non si cambia ma Marcell Jacobs, re dei 100, ha espresso il desiderio di correre l’ultima frazione. L’ha detto anche a lei? Vi siete chiariti?
«È un discorso venuto fuori da certe sue interviste, con Marcell ne abbiamo parlato a settembre, al Gran premio di Monza. Entrambi vogliamo vincere tanto con la staffetta, ci schiereremo nel modo migliore per riuscirci. Al prof Di Mulo ho sempre dato la mia totale disponibilità: dove mi vuole, mi mette. Ma io so che la frazione dove rendo di più, per come sono fatto, è l’ultima».
Si è fatto un regalo con il tesoretto del premio Coni per la medaglia d’oro?
«Una vacanza a Londra, ma senza togliermi sfizi speciali. Gliel’ho detto: difficilmente mi premio. Anche a Natale. A nonna Titta ho chiesto un maglione, agli amici un ferro di cavallo: sono ultimo al Fantacalcio, mi serve un amuleto. Il regalo più bello è quello che mi sono fatto in pista a Tokyo».
Da quando è campione olimpico ha fatto incontri speciali?
«Ho conosciuto Alberto Tomba a Porto Cervo quest’estate, un mito assoluto: i suoi complimenti mi hanno commosso. L’emozione più grossa è stata consegnare il testimone della 4x100 al presidente Mattarella, al Quirinale. Seguita a ruota dall’abbraccione in cui Giorgio Chiellini mi ha stritolato a bordo campo prima di Juve-Chelsea di Champions. Ah, bello anche il messaggio di Alvaro Morata dopo l’oro: anche se non sono italiano, mi hai dato i brividi».
Il leggendario Livio Berruti, eroe dei Giochi di Roma 1960, a 82 anni è un suo ultrà.
«Parlargli è sempre di grande ispirazione, al Mondiale di Doha 2019 corsi la finale dei 100 con le scarpe bianche, citazione del suo oro nei 200 metri: Livio ha dimostrato che la differenza con gli atleti di colore che hanno qualità fisiche superiori si può colmare. Dopo i Giochi, ci siamo ritrovati a Varese ciascuno con il suo oro al collo a 61 anni di distanza. Mitico».
Nel 2022, con il Mondiale di Portland e l’Europeo di Monaco all’orizzonte, anche lei correrà i 200 metri come Mennea e Berruti, finalmente. La sua distanza d’elezione.
«A parte che i 200 non escludono i 100, faccio gli scongiuri. È dalla categoria allievi che provo a preparare il mezzo giro di pista, tra infortuni e imprevisti è successo di tutto. Sogno di essere competitivo in entrambe le distanze: l’esperienza di Tokyo mi dice che devo puntare anche a tempi che prima reputavo impossibili. L’oro olimpico non è un caso, è un inizio».