Corriere della Sera, 27 dicembre 2021
Un reportage psicologico
Due anni in questo infernale pantano pandemico, con tutte le sue conseguenze dirette e indirette ramificate in ogni attimo, in ogni anfratto della nostra esistenza, e prospettive che più fosche non si potrebbero, almeno per il prossimo futuro: non si può dire che sia un bel bilancio.
Nessuno è felice in questa sciagura, comunque la interpreti, e nessuno ne è fuori. Non possiamo nemmeno accusarci di un tasso eccessivo di litigiosità: è naturale, perfettamente umano, che l’incertezza e l’evidente impoverimento delle vite alimenti la discordia e le sue periodiche fiammate. Soprattutto in queste settimane angosciose in cui le dighe che bene o male abbiamo eretto per evitare il peggio, cioè i vaccini e le loro necessarie certificazioni, si dimostrano più fragili di quello che avevamo sperato. Quando è grande il disordine sotto il cielo, il circo dell’opinione prospera fino a rendere difficilmente riconoscibili gli stessi fatti. Ci sarebbero i numeri, i famosi dati, ma la loro pretesa certezza, in questo mondo, è una pia illusione, un residuo ingenuo di illuminismo. Non c’è numero che non possa ruotare come un birillo nelle mani di un abile prestigiatore, e due più due non è più il sinonimo di qualcosa su cui tutti sono d’accordo: si potrebbe essere accusati di «dittatura aritmetica», come minimo. A me sembra evidente, per esempio, al di là di ogni ragionevole dubbio e precauzione, che il confronto tra il numero dei morti e dei malati gravi prima e dopo le campagne vaccinali riveli che ne valeva la pena, e che questo fatto sarebbe ancora più palese se tutti si vaccinassero. Non so nulla di matematica e statistica, ma è un’operazione elementare: prendi il bollettino di oggi, quello dello stesso giorno di un anno fa, e li confronti. Scacco matto? Ma che. Rimane comunque un discreto numero di persone pronte a riderti in faccia. A volte mi sembra che l’unica vera consolazione rimasta sia lo studio dei tipi umani e psicologici rivelati da questa catastrofe a tempo indeterminato. Un mio amico, che è un bravissimo e popolare romanziere, mi ha detto l’altra sera una cosa che mi ha fatto riflettere: non si è mai verificato nella storia umana un evento che, riguardando simultaneamente tutti, sia stato come il Covid capace di farci distinguere in modo indubitabile un cretino da una persona intelligente. È il Grande Test che ci è sempre mancato, insomma? L’idea mi sembra brillante, ma non sono d’accordo. Preferisco andare a caccia di sfumature, di lapsus rivelatori, di idiosincrasie che non sono direttamente connesse né all’intelligenza né alla stupidità, ma alla maniera imprevedibile in cui i singoli individui procedono nel labirinto del mondo. Non solo i dettagli rivelano di più delle idee generali, ma ci offrono chiavi psicologiche che non avevamo considerato, nella fretta di dividere chi la pensa come noi dai «nemici». È con questo stato d’animo che mi sono tuffato nella lettura del lungo articolo di Massimo Cacciari apparso sulla «Stampa» dello scorso 15 dicembre. È un testo lucido, nobile, pieno di considerazioni da meditare: uno di quegli articoli, insomma, che si ritagliano e si conservano, al di là di quello che si può pensare sul green pass. Cacciari, tra l’altro, rende evidenti i pericoli di una politica che deleghi alla scienza la responsabilità delle decisioni; descrive in modo credibile l’azione socialmente disgregante di immani forze economiche, più potenti degli stessi governi. L’articolo è facilmente reperibile in rete, per chi se lo fosse perso, e non voglio riassumerlo, perché mi preme soprattutto commentarne le ultime parole, che ormai da una settimana mi si sono ficcate in testa come una specie di ossessione, non priva di sensi di colpa. La chiusa dell’articolo sorprende come un colpo di frusta, o di stile, che arriva al termine di un ragionare nobilmente pacato, intinto di malinconia. Ma poi, proprio al momento di congedarsi, individua e colpisce un bersaglio che non ci saremmo aspettati: coloro che, dopo aver letto in gioventù filosofi come Benjamin e Adorno, non sembrano più avere altre preoccupazioni che quella di «aggiungere qualche anno alla propria vita». Non solo ho ritagliato l’articolo, ma ho sottolineato queste parole perché mi sembra di averci riconosciuto una chiave psicologica importantissima, facendomi comprendere cose che rimangono sempre invisibile nel gioco della disputa e della ridicolizzazione dell’avversario. Non posso ahimè vantare una gioventù spesa sui libri di Benjamin e Adorno, ma ne conosco abbastanza il pensiero per capire che Cacciari allude, con il nome di questi due grandi filosofi tedeschi, a un’idea della vita umana piena di significato, investita di destino, libera nel senso più radicale della parola. Sono idee tradite, secondo Cacciari, dalla preoccupazione senile di allungarsi la vita, asserviti ai ben noti protocolli sanitari. Se dico che queste parole mi sono sembrate come uno schiaffo rivolto direttamente a me, è perché non ho potuto fare a meno di chiedermi cosa volevo io, cosa chiederei alla divinità o alle fate se ne avessi l’occasione. Ebbene, non c’è scampo: come la stragrande maggioranza degli esseri umani, chiederei qualche anno in più, non riesce a venirmi in mente nient’altro. Magari proprio per leggere con la dovuta attenzione tanti libri di Benjamin e Adorno che non ho letto. Ma i buoni propositi non sono nulla: il fatto è che la vita è l’unica cosa che abbiamo, e il desiderio di aggiungerle «qualche anno» mi sembra tutt’altro che spregevole: quando è finita, è finita. E in questo amore per la vita in quanto tale, ovviamente rientra anche il diritto di abbandonarla, quando la sofferenza la riduce a sopravvivenza. È l’assenza di una legge degna sulla buona morte la vera lesione intollerabile dei nostri diritti, non il green pass o i tamponi. E forse tanti pensatori facili a scaldarsi nelle attuali contese dovrebbero imparare qualcosa da uomini come Marco Cappato, che percorrono un millimetro al giorno la strada impervia della dignità e della vera giustizia, ostinati nella loro visione, perlopiù lontani dalle platee giornalistiche e televisive. Ad ogni modo, non vedo il motivo per cui il pensiero filosofico, da sempre fondato sui limiti e le prerogative dell’umano, dovrebbe storcere il naso di fronte al desiderio, elementare e universale, che la vita duri il più a lungo possibile. Anche in questo, come in tutti i desideri, ci sono insieme saggezza e follia: ma non si può ridurre a un’aspirazione da schiavi avviliti e rassegnati.