la Repubblica, 27 dicembre 2021
I riti della feste
Natale non è una data secca, non si esaurisce in un giorno. Perché in dicembre il 25 è un numero periodico, con una coda da cometa che si ripete nei giorni successivi, come uno strascico del tempo. Di fatto è un serial rituale, l’ultimo grande ciclo festivo della nostra civiltà. L’unico scampato ai diktat dell’economia, che ha fatto della produzione una religione. E delle feste comandate una perdita di tempo e di denaro.
Invece il Natale è sopravvissuto e la ragione non è soltanto religiosa, ma sociale, ecologica, economica, astronomica. Perché i 12 giorni che vanno dalla sera di Natale alla notte dell’Epifania sono quel che resta delle cerimonie stagionali del mondo antico, quelle che simboleggiano il corso del sole, il suo lungo viaggio annuale che si conclude con la vittoria sulle tenebre al solstizio d’inverno, quando il giorno diventa più lungo della notte e la natura si stiracchia prima di uscire dal suo letto invernale. E nella luce trepidante dei pomeriggi di dicembre, si intravede un chiarore lontano che si è messo in cammino dall’Oriente. Proprio come i Re Magi.
A questi riti il cristianesimo ha dato nuovi segni e nuovi significati, trasformando la lotta cosmica tra il giorno e la notte nella celebrazione del dio che viene al mondo alla luce di una stella per liberare il mondo dall’oscurità del peccato. Così, quella che per gli antichi è la cerniera solstiziale tra l’anno vecchio e l’anno nuovo si trasforma in quello che Giorgio Manganelli chiamava un «sabba pudico», uno straniamento rituale, un fremito del calendario che accarezza la schiena dell’intera società e fa vibrare all’unisono tutte le sue corde, sacre e profane. Questa stratificazione di simboli ha attraversato il tempo ed è giunta fino a noi cambiando identità ma non troppo. Perché questo millenario passaggio di testimone della storia ci lascia in eredità uno straordinario patrimonio di tradizioni, di abitudini, di comportamenti. Che rappresentano l’ultimo decalogo festivo in un tempo di deritualizzazione dell’esistenza individuale e collettiva. Ecco perché gli obblighi natalizi, soprattutto quelli che ci fanno sbuffare, hanno la ripetitività del rituale e la normatività del precetto.
Non vorremmo ma dobbiamo. Fare il presepe, decorare l’albero, correre in giro a comprare regali, baciarsi sotto il vischio, partecipare al cenone della Vigilia, idem per il pranzo di Natale, scartocciare i doni, andare alla messa di mezzanotte, abbuffarsi, pentirsi.
E tutte le scuse pretestuose che troviamo – «lo facciamo solo per i bambini», o «per non dispiacere ai nonni», o «è l’unico momento in cui si sta tutti insieme», oppure «si è sempre fatto così» – servono solo a ingannare noi stessi. Tant’è vero che ci ricaschiamo pari pari quando stiamo appena riprendendoci dai postumi del triplete calorico del 24-25-26 e arriva San Silvestro. Con il suo frastuono pagano, il cotechino e le lenticchie d’ordinanza, il rosso beneaugurante, il countdown, il divertimento obbligatorio, le immancabili bollicine. Altrettanti retaggi di antiche tradizioni che celebravano il giro di boa del calendario accendendo fuochi per rischiarare il cammino dell’anno entrante e facendo tanto rumore per tenere lontani gli spiriti maligni. Luci e suoni, fragore e fulgore, in anticipo sui nostri botti. Nemmeno il tempo di rientrare nel quotidiano che arriva quella buona strega della Befana a mettere il suo sigillo al ciclo incantato delle dodici notti. Non a caso Shakespeare dedica proprio all’Epifania la Twelfth Night, La dodicesima notte, un capolavoro pieno di illusione e di mistero, di attesa e di delusione. Il suo sogno di una notte di mezzo inverno. Ideale corrispettivo della notte di mezza estate, cioè quella di San Giovanni che nel cristianesimo delle origini faceva del 24 giugno una sorta di Natale estivo. E che nella fantasia shakespeariana diventa un onirico baccanale della natura.
In realtà, le nostre feste sono una santa maratona, una kermesse del sacro, una girandola vorticosa cui partecipano tutti, credenti e non credenti, volenti e nolenti, parenti e serpenti. Per devozione o per tradizione, per consuetudine o abitudine, per gioco o per forza.
Per molti giocoforza. E anche se le intenzioni e le motivazioni sono diverse il risultato non cambia. È una recita corale, una messa in scena del legame comunitario, una sovraesposizione degli affetti, un colpo di coda dei risentimenti. Insomma, il nostro Natale è una sacra rappresentazione che diventa spesso e volentieri psicodramma familiare e qualche volta si conclude con uno spietato autodafé.
Ma in ogni caso perfino nella frenesia consumistica dei pacchetti e contropacchetti, degli eccessi alimentari e dell’acquisto last minute, che ogni anno fa ripartire come una trottola l’economia in affanno, continua a brillare l’antica scintilla di quei culti che attraverso la divinità celebravano la comunità. Una scintilla che cova nelle profondità del nostro immaginario, sotto le ceneri della secolarizzazione. In questo senso, le feste attuali non sono un tradimento dell’autentico spirito natalizio come vuole un abusato luogo comune pauperista, che vagheggia natali da Albero degli zoccoli, compunti, frugali, severi. A dirlo sono in molti ma a crederci sono in pochi. Intanto perché nessuno sa in cosa consista veramente questo spirito. E poi perché i nostri antenati, che alla povertà davano del tu, avrebbero barattato volentieri le loro francescane vigilie con le nostre opulente abbuffate.
In realtà ogni epoca riflette, nel suo modo di festeggiare, sogni e bisogni, passioni e devozioni. Per questo il nostro Natale è un intreccio tra celebrazione religiosa e sacralizzazione dello shopping, tra liturgia e gastronomia, tra familismo e edonismo. Dove le ragioni del corpo non cancellano quelle dello spirito. Ma prestano simboli e parole d’oggi a quella fame di vita che rende festosa ogni festa.