la Repubblica, 27 dicembre 2021
Il sortilegio del Cavaliere
Nell’eterno ritorno italiano, ricominciano come vent’anni fa le telefonate dei giornalisti stranieri, increduli davanti all’ipotesi che Silvio Berlusconi possa davvero pensare di vincere la corsa del Quirinale. Vogliono sapere, non riescono a capire, finiscono per concludere con la stessa frase, probabilmente scuotendo la testa: «Non è possibile». Li ascolto, e ogni volta penso che proprio quelle parole rappresentano la formula magica berlusconiana per attraversare lo specchio, ed entrare ogni volta in quella realtà parallela che il Cavaliere ha costruito e nella quale cerca continuamente di attirare l’Italia.
Si potrebbe dire che la scalata al Quirinale gli interessa proprio perché non è possibile, dunque è fuori dal senso comune della politica ordinaria, dal codice condiviso del cursus honorum tradizionale, dal calcolo delle opportunità: anzi, crea uno scandalo istituzionale. Ma scegliere una soluzione scandalosa e renderla plausibile, sovvertire l’opinione dominante rovesciandola e piegare l’inverosimile provando a realizzarlo, tutto questo è già una prova di potere, un sigillo di legittimazione postuma sul ventennio, la conferma del carattere fuori da ogni regola, dunque extra ordinario, dell’avventura berlusconiana, concepita e vissuta nella sua vera essenza che oggi si rivela: un’eccezione permanente.
Significa anche che non c’è nulla da spiegare, niente da chiarire o da correggere nel percorso politico che il Cavaliere ha compiuto dopo aver ricreato la destra italiana, incarnandola. Si può gareggiare per il Quirinale senza sciogliere nemmeno un nodo dei tanti che tengono insieme le contraddizioni del Berlusconi politico: il grandioso conflitto d’interessi innestato in permanenza e irriformabile, perché è un elemento costitutivo della grandeur di questa leadership; lo strapotere economico che permette di alterare il mercato politico comperando parlamentari a grappoli; l’abuso mediatico, con il controllo proprietario di metà del cielo televisivo, quello privato, con cui si salda l’influenza politica della destra sulla tv pubblica; la deformazione del codice di procedura penale tagliando e cucendo norme sul profilo della silhouette del Cavaliere, ogni volta che serviva a salvarlo dai reati contestati dalla giustizia; l’esecutivo che usa il legislativo per bloccare il giudiziario, con buona pace della separazione dei poteri; le “cene eleganti” con le candidature politiche offerte alle ragazze del “bunga bunga”, una pratica che l’ex moglie dell’ex presidente del Consiglio ha definito «ciarpame politico».
In questa visione il Quirinale non è la sede della suprema magistratura della Repubblica ma diventa l’altare laico dove si brucia tutto ciò, si riordina il passato, si riscrive la vicenda del Paese sanificandola con l’epopea mitologica di una parte, e con questo sacrificio civile si chiude davvero la seconda Repubblica: per inaugurare un’età imperiale dove la sacralità costituzionale del ruolo supremo per il vincitore annulla i contrasti, supera le riserve e cancella le divisioni, perché riscrive la storia.
Non siamo semplicemente davanti ad una scelta di Camera e Senato riunite in seduta comune per decidere chi deve guidare lo Stato, un compito che reclama dignità, responsabilità, decoro e senso dell’onore repubblicano: ma ad una reincarnazione del berlusconismo esausto, ridotto nei numeri, logorato dagli anni, consumato nell’efficacia favolistica del racconto di sé. E tuttavia ancora dominato e agito dal demone della dismisura che ha governato tutta la vita pubblica dell’ex premier, e che oggi opera la sua trasfigurazione finale, pretendendo per un leader pregiudicato, che ha diviso il Paese abusando nel pubblico e nel privato del potere legittimo che si era conquistato, la ratifica non soltanto a patriota – già concessa da Giorgia Meloni – ma a padre della patria.
Com’è ben chiaro la questione è certamente politica, è inevitabilmente simbolica, ma soprattutto è profondamente, intimamente ideologica. Se infatti nella prima fase del berlusconismo è stato il popolo la fonte del consenso e la via di accesso al potere, adesso sono le istituzioni che devono imporre il sigillo della Repubblica su una storia controversa assumendola nel loro patrimonio valoriale e trasformandola addirittura in un giacimento di energia nazionale e di virtù civiche. Si tratta, in poche parole, di inscrivere il significato della destra battezzata ad Arcore nel codice genetico dello Stato, non solo come parte significativa della vicenda politica e protagonista di una stagione rilevante, com’è ovvio e naturale, ma come elemento costitutivo del carattere repubblicano contemporaneo, talmente marcato da essere portato alla guida dello Stato. Magari inconsciamente, è per questa ragione che Meloni e Salvini accettano di imbarcarsi in quest’avventura che apparentemente non ha respiro, è incongrua e sembra servire soltanto al soddisfacimento dell’egolatria berlusconiana, come la chiamava il professor Cordero: e invece è un upgrade definitivo della destra italiana.
La storia fa un giro, nemmeno tanto lungo. E all’appuntamento con l’impossibile trova Berlusconi che dice alla democrazia: la mia anomalia ti ha stremata, perché in realtà è talmente profonda e perfetta che non è risolvibile. È arrivato il momento di cambiare.
Introiettala e costituzionalizzala, portala al tuo vertice: ne uscirai manipolata, ma finalmente pacificata, e ogni cosa a quel punto troverà una sua nuova, deforme coerenza.
Tutto è chiaro, dunque, meno un punto: c’è qualcuno che dice no e si rifiuta di attraversare lo specchio magico del Cavaliere, guardando in faccia la realtà, e rifiutando il sortilegio?