il Fatto Quotidiano, 27 dicembre 2021
Mark Rothko: «Detesto la vita da pittore»
In libreria con Donzelli “Vivere l’arte. Scritti (1934-1969” del pittore Mark Rothko. Ne pubblichiamo alcuni stralci
Gentile dott. Jewell (direttore del New York Times, ndr), per l’artista, l’attività di uno spirito critico fa parte dei misteri della vita. È per questo, crediamo, che il rammarico dell’artista di essere frainteso, specialmente dalla critica, è diventato un chiacchierato luogo comune. È pertanto un evento quando la situazione si capovolge e il critico del Times confessa – pacificamente ma pubblicamente – il suo “sconcerto”, il fatto che prova “imbarazzo” davanti alle nostre immagini esposte al Federation Show. Ci rallegriamo di quest’onestà, della reazione, cordiale potremmo dire, verso i nostri dipinti “oscuri”, perché in altri circoli critici abbiamo l’impressione di aver suscitato uno scompiglio isterico… Non intendiamo difendere i nostri dipinti. Questi si difendono da soli. Li consideriamo dichiarazioni cristalline. La sua incapacità di congedarli o screditarli è una prova di prima mano che sono dotati di un qualche potere espressivo… Nessun possibile manuale d’istruzioni può spiegare i nostri dipinti. La loro comprensione deve essere il frutto di un’esperienza consumata tra il quadro e l’osservatore. Il riconoscimento dell’arte è un autentico matrimonio di spiriti. E nell’arte, come nel matrimonio, la mancata consumazione è una condizione per l’annullamento… Di conseguenza, il nostro lavoro deve oltraggiare chiunque si senta spiritualmente in sintonia con le decorazioni d’interno; i quadri per la casa; i quadri sopra il camino; i dipinti di vedute americane; i quadri sociali; la purezza in arte; i premiati lavori commerciali; la National Academy; la Whitney Academy; la Corn Belt Academy; pacchianate, cose trite e ritrite ecc.
Accetto la realtà delle cose e la loro sostanza. Accetto la realtà delle cose e la loro concretezza. Mi limito ad ampliare l’estensione di questa realtà, a moltiplicare il numero dei suoi abitanti e ad assegnare loro gli stessi attributi di cui faccio esperienza nell’ambiente più familiare. Insisto sulla pari esistenza del mondo generato dalla mente e del mondo procreato da Dio al di fuori di questa… Metto in discussione l’arte surrealista e l’arte astratta allo stesso modo in cui si mettono in discussione il padre e la madre, riconoscendo l’inevitabilità e il ruolo giocato dalle mie radici e – inflessibile sul mio dissenso – mi considero allo stesso tempo uno di loro e un essere completamente indipendente da loro… L’unica fonte scritta per l’arte resta, a mio avviso, l’euforia dell’esperienza tragica. Ma tengo troppo sia all’oggetto che al sogno per lasciarli dissolversi per effervescenza nell’incorporeità della memoria e dell’allucinazione.
Caro Clay… se riuscissi a comunicare parte di me stesso come riesci a farlo tu nelle tue lettere, scriverei con più piacere e assiduità. Così come stanno le cose, mi tocca quasi strappare una pagina scritta da me stesso. Comincio a odiare la vita da pittore. Si inizia con l’aver riguardo per il proprio sé, tenendo ancora un piede nel mondo normale. In seguito diventi prigioniero di una frenesia che ti conduce sull’orlo della follia, spingendoti così lontano da non riuscire a tornare più indietro. Il ritorno consiste in una successione di settimane intronate in cui sei solo mezzo vivo. Comincio a credere che bisognerebbe spezzare questo Ciclo da qualche parte. Per il resto, consumi energie per resistere al risucchio delle mentalità dei mercanti per colpa dei quali, apparentemente, attraversiamo quest’inferno.
Non si dipinge per gli studenti di disegno o per gli storici ma per gli esseri umani, e la reazione in termini umani è la sola cosa che dà veramente soddisfazione.
Il mio lavoro ha la stessa unità del nulla, non mi importa di dirlo, a costo di sembrare immodesto… Il mondo non ha mai visto.
Si può essere avventista del settimo giorno ecc. (ovvero scindere il sé dal mondo). Secondo me non è vero: io abito sulla sesta Avenue, dipingo sulla sessantatreesima strada, subisco l’influsso della televisione ecc. ecc. (ovvero diverse sfaccettature della vita). Le mie pitture appartengono a questa vita.
Il tipo di scrittura di cui abbiamo bisogno oggi è quella in cui le persone trascrivono le loro reazioni davanti alla pittura. Scrutare dentro loro stesse per essere in grado di verbalizzare quale senso i dipinti rivestono veramente per loro in quanto esseri umani.
Il passato è semplice; il presente è complesso; il futuro è più semplice ancora.
Dobbiamo mettere fine a quest’eterna falsificazione… della storia, dei musei, della formulazione, dei paragoni… ovvero legare la comunicazione – immediata e atemporale – della pittura all’essere umano che le corrisponde.
La difficoltà di vivere in questo mondo è come riuscire a non restare asfissiati.
Non mi piacciono i quadri.