Corriere della Sera, 24 dicembre 2021
Biografia di Amanda Sandrelli raccontata da lei stessa
«Sono stata la figlia del peccato e di padre ignoto fino all’età di 25 anni!», ride l’attrice Amanda Sandrelli, figlia di Stefania Sandrelli e del cantautore Gino Paoli. Poi aggiunge: «Mamma e papà non li ho mai visti vivere insieme, e per questo non sono cresciuta con la classica dinamica genitoriale, ma ho vissuto in una famiglia allargata, incasinata e popolata da tante belle persone».
È nata a Losanna. Quasi di nascosto?
«Bè... quasi. Mio padre era regolarmente sposato con Anna Fabbri dalla quale era in attesa del figlio Giovanni che è nato tre mesi prima di me, perché intanto anche mia madre era incinta. Insomma, un bel pasticcio. E infatti, dati i tempi visto che stiamo parlando del 1964, lui non ha potuto darmi subito il suo cognome. Solo in seguito per me è staro possibile chiamarmi Sandrelli Paoli. Avrebbe potuto essere un inferno invece no, sia pure nella complessità sono stata fortunata, mi è andata decisamente bene, ho imparato a prendere il meglio dagli affetti familiari e soprattutto ho imparato a essere libera dalle convenzioni, dalle regole. Una famiglia tutt’altro che perfetta, non borghese, dotata però di un’alta dose di onestà».
Non ha mai sofferto per questa situazione un po’ complicata per l’Italia dell’epoca?
«All’inizio, da bambina, sapevo di essere in una condizione affettiva difficile: una figlia unica con due fratelli, oltre a Giovanni, che ho conosciuto solo in seguito quando, tra gli otto e i tredici anni, andai a vivere da mio padre che mi voleva a Milano, e poi Vito che mia madre ha avuto da Niki Pende. A casa di papà venni accolta con molto affetto da Anna, che aveva un carattere meraviglioso, è stata per me una seconda madre e abbiamo costruito un bellissimo rapporto. Certo, crescendo ci sono stati dei nodi da sciogliere, mi sono posta delle domande e sono andata in analisi per un decennio, tra i 23 e i 33 anni. È stato un percorso importante, mi piaceva andare dallo psicoanalista che non ti risolve i problemi, semmai te ne crea di nuovi e così almeno non compi sempre gli stessi errori. La psicoterapia ti insegna a non rimanere prigioniero di certe dinamiche costrittive e ti fa capire che nella vita puoi scegliere poco il tuo destino, dipende tutto dalle occasioni che ti capitano. Io non sono credente, non posso quindi affidarmi a soluzioni “alte”, solo il cervello, solo quello che sta dentro la nostra testa ci può aiutare».
È stata aiutata anche da un carattere forte, determinato...
«Diciamo pure che, rispetto agli altri, sin da piccola mi sono sentita un motore acceso. Una strana sensazione di energia, iperattività, in verità non sempre piacevole: il mio tato Gary, che mi ha cresciuto, diceva che avevo l’argento vivo addosso. Una caratteristica che poi mi è servita molto in teatro, un valore aggiunto che, quando sono sul palcoscenico, mi mette in comunicazione con gli spettatori».
E nella professione artistica, l’argento vivo le è servito per confrontarsi con due genitori artisticamente ingombranti?
«Due persone speciali, due statue gigantesche. Infatti quando ho finito il liceo non pensavo di fare l’attrice e mi iscrissi all’università, facoltà di psicologia, guarda caso... Stefania e Gino sono stati ingombranti, importanti anche economicamente, ma io come loro sono sempre stata indipendente e per questo ho deciso presto di andare a vivere da sola, in una mia casa, in un posto solo mio. Il confronto con loro non mi ha mai preoccupato, non sono né gelosa, né competitiva e questa caratteristica mi ha aiutato anche quando, per esempio, mi chiedevano se invidiassi la bellezza di mia madre: per carità, ne sono stata assolutamente orgogliosa! La sua bellezza appartiene a me».
Il rapporto migliore con l’una o con l’altro?
«Con mamma sono cresciuta, molto presente affettivamente, pur se sempre in giro per lavoro. Con papà il rapporto si è costruito più tardi: lui è veramente un artista, e il talento creativo non è facile da gestire, ha un costo, si paga, con tutti i pro e i relativi contro. Quando ero piccola, lo giudicavo piuttosto pesantino, alternava momenti di grande amorevolezza ad altri in cui non esistevo, non c’ero proprio nella sua mente... Tra l’una e l’altro, mi sentivo in bilico sul filo da acrobata, ho dovuto cercare un mio equilibrio precario, che per fortuna ho trovato e mi sono affrancata... Bisogna andare avanti senza pesi, l’importante è muoversi, non c’è nulla di fermo nella nostra esistenza».
In che senso?
«In tutti i sensi. Il pregio che mi riconosco è quello di aver compreso che i miei genitori non mi dovevano nulla: ciò mi ha permesso di emanciparmi, non ho perso tempo a rimproverarli, ho chiuso presto i conti con le recriminazioni, ovviamente anche grazie alla psicoanalisi».
Mai un loro consiglio sul piano professionale?
«Non mi hanno mai detto cosa dovevo fare, le scelte sono sempre state mie e hanno saputo mantenere uno, anzi, dieci passi di distanza, proprio perché sapevano di essere incombenti. Venendo a vedere i miei spettacoli non si prodigavano, né si prodigano in commenti tipo: “sei stata brava”, oppure “puoi fare meglio questo o quello”... Sono due persone intelligenti e sono ben consapevoli che non dire è più giusto che dire a sproposito: ora che sono madre anche io lo so benissimo e loro sono stati bravi. Anzi, semmai era mamma a chiedermi consigli, suggerimenti, giudizi sul suo lavoro... un suo modo per farmi sentire importante. Il suo unico consiglio a me è stato il seguente, molto pratico: non bere il caffè prima di fare foto in primo piano, perché macchia i denti. Complimenti da papà? Molto rari, è sempre stato piuttosto orso di carattere, però adesso che è un po’ vecchietto è sicuramente più tenero. Un suo consiglio utile? Sì, quando ho iniziato a recitare in teatro ed ero, come sono tuttora, assalita dal terrore la sera della prima, mi disse: ti mancherà la saliva, ti tremeranno le gambe... fa parte del gioco».
Questa sua famiglia complicata l’ha resa più saggia?
«Direi che mi ha subito fatto diventare un’adulta. Forse troppo presto. E questo aspetto non è del tutto positivo, l’infanzia è bella da vivere con leggerezza. Mio figlio Rocco, infatti, mi diceva: “non voglio diventare grande”».
Intraprendendo la sua carriera, si è sentita privilegiata e, data la sua ascendenza, a volte raccomandata?
«Privilegiata sempre, avere un doppio cognome famoso è un grosso vantaggio. Raccomandata mai, i miei genitori non l’avrebbero fatto nemmeno se glielo avessi chiesto. Il mio percorso è iniziato per caso con Massimo Troisi e Roberto Benigni nel film Non ci resta che piangere, solo perché mi avevano conosciuto, appena diciottenne, durante una festa a casa e gli serviva una ragazza per un piccolo ruolo. Non sapevo fare niente e glielo dissi tranquillamente, ma loro mi vollero sul set... accettai per divertirmi e per guadagnare un po’ di soldi. A me non piacciono i favoritismi clientelari, non appartengo a nessuna parrocchia e questo, in un certo senso, mi ha dato filo da torcere».
Perché?
«A teatro sono arrivata sentendomi impreparata, non è un lavoro semplice, è faticoso, inoltre tuttora, ad ogni debutto, mi viene il sospetto che il pubblico venga a vedermi perché sono figlia di... Solo al termine della rappresentazione capisco se mi apprezza veramente, se batte le mani per la mia performance o per un altro motivo. Non nego che determinate caratteristiche le ho ereditate. Per esempio, mi dicono che la voce e certi movimenti li ho presi da mamma. Da papà, l’orecchio musicale, molto utile in palcoscenico».
Ha ereditato solo pregi? E i difetti di Stefania e di Gino?
«Eccome no? Da Stefania, che se non fosse mia madre sarebbe perfetta, ho ereditato l’iracondia, quella che ti fa strillare come un’erinni, quella che vedi rosso e non sai controllarti in alcun modo, parli a sproposito dicendo cose di cui, in seguito, devi pentirti e chiedere scusa. Un difetto che lei stessa aveva ereditato da sua madre: mi raccontava che quando a mia nonna le partiva l’embolo, arrabbiata con i figli che scappavano, si mordeva il dito per non inseguirli. Una pecca su cui ho dovuto lavorare molto. Da mio padre, ho ricevuto caratterialmente la tendenza a insabbiarmi, sabbie mobili profonde che, quando sei un artista, sono anche belle per abbandonarsi, però il talento a volte ti inghiotte, non perdona. Tuttavia io le gestisco meglio di lui, prima di tutto perché sono femmina e poi perché ho meno talento...».
A proposito di femmine, in questo periodo sta portando in tournée la «Lisistrata» di Aristofane con la regia di Ugo Chiti. A cosa si deve questa scelta?
«È una commedia che risale al 400 a.C. eppure gli anni se li porta benissimo, è attualissima nel rappresentare la contrapposizione tra maschile e femminile che, in certi casi, diventa violenta. Il maschio viene messo in discussione e il grande commediografo greco lo mette in ridicolo, lo prende in giro, rappresentandone il potere con dei falli in continua erezione. Però, in un altro recente spettacolo, Lucrezia Forever!di Francesco Niccolini, liberamente ispirato ai fumetti di Silvia Ziche, ho preso in giro la figura femminile, quella di una donna un po’ frustrata, decisamente incacchiata con l’altro sesso, delusa e nevrotica. Sì, perché anche noi donne commettiamo spesso dei grossi errori».
Lei, per esempio, quali ha commesso?
«Di sicuro quello di non lasciare andare via le persone, quando dovevo lasciarle andare... un errore madornale che ho ripetuto più volte: gli errori si compiono, mi fa rabbia ripeterli. Preferisco avere un rimorso, invece di un rimpianto. Con l’età che avanza, i miei 57 anni, bisogna essere più coraggiosi e meno prudenti».