il Giornale, 24 dicembre 2021
Ritratto di Arpad Weisz
Dordrecht sembra proprio la città giusta per ricominciare tutto daccapo. Arpád ci arriva il 16 febbraio del ’39 con la famiglia al completo, dalla carrozza ferroviaria scendono la moglie Ilona Rechnitzer conosciuta e sposata a Szombathely, e i piccoli Clara e Roberto, tutti elegantissimi. Indossa un cappotto che gli casca fino ai piedi, camicia, cravatta, lei in pelliccia e cappellino alla moda, guanti, i bambini sorridono, parlano un italiano correttissimo, sono nati a Milano. Ad attenderli in stazione c’è il signor Willem van Twist, presidente del Dordrechtsche Football Club, e il dirigente Karel Lotsy. È solo una piccola società olandese di seconda schiera e van Twist si è occupato di tutto, l’alloggio è in Bethlehemstraat al 10/a, al centro di una quieta cittadina di pochi abitanti adagiata su un delta fra Mosa, Reno e Schelda, Arpád si deve occupare della squadra. Il Dordrechtsche è un’opportunità, una entrata, ci si può lavorare con passione e i tifosi sono eccitati all’idea che a condurla ora ci sia Arpád Weisz. Ha risolto situazioni molto complicate in grandi città in Italia e in Europa, dove ha allenato ha portato la squadra ai massimi risultati della sua storia. Viene da una famiglia benestante di Solt, una settantina di chilometri da Budapest una delle capitali dell’impero Austro Ungarico, il padre Lazar è un medico veterinario molto affermato, Arpád frequenta il liceo, poi la facoltà di Giurisprudenza, sembra già tutto scritto. A Dordrecht si respira aria pulita, c’è la guerra ma l’Olanda è neutrale, frettolosamente invasa da decine di migliaia di ebrei in fuga dalla Germania. Anche Arpád ha origini ebraiche ma a Milano ha battezzato i suoi figli e non ha mai frequentato sinagoghe, o almeno lo ha fatto con molta discrezione, solo un passato in Cecoslovacchia nel Maccabi Brno da formidabile ala sinistra, club che nei suoi primi anni ingaggia solo calciatori ebrei provenienti da qualsiasi parte del mondo, non partecipa al campionato nazionale ma si esibisce in tournèe in tutta Europa sfidando i club più forti in circolazione. Weisz ci gioca una sola stagione nel 1923/24, il club verrà spazzato via dall’ondata antisemita una quindicina di anni più tardi, apprende la notizia proprio mentre allena il Dordrecht. Ma qui adesso pare si viva in un’enclave di solidarietà diffusa, il presidente vuole portare il club ai più alti livelli, i calciatori danno del lei e ascoltano con educazione, Weisz si integra subito nelle abitudini della città, guadagna stima giorno dopo giorno e i tifosi sono meravigliati dalla sua competenza e dalle novità nella conduzione della squadra. Compila schede personalizzate per ogni calciatore, differenzia i turni di allenamento in relazione ai loro ruoli, parla con loro e si occupa della situazione familiare, redige diete personalizzate, a chi trova carente atleticamente impone corsa, salto in alto e in lungo, vieta di calzare scarpe da gioco se poco tecnici e li fa palleggiare scalzi, sempre disponibile a qualunque ora del giorno e della notte.
E l’Italia? Ah sì, l’Italia, qui ci ha lasciato il cuore. C’è venuto tre volte, la prima da prigioniero, la seconda da calciatore, la terza da allenatore, la storia più lunga, più fantastica, scudetti con Inter e Bologna, ancora oggi il più giovane ad aver vinto un campionato da noi, ma anche Alessandria, Bari, Novara. Su diciotto squadre di serie A, undici sono allenate da ungheresi, il calcio danubiano una delizia, lui sulla punta dell’iceberg, sotto un crogiolo di invenzioni rivoluzionarie. La prima città che vede è Trapani da diciannovenne con i gradi di Caporale nel IV corpo d’armata austroungarico, prigioniero sull’Isonzo, poi Genova il 4 marzo del ’23 in un’amichevole fra Italia e Ungheria finita 0-0. Infine è l’Inter che lo chiama, prima ci gioca, si infortuna gravemente senza soluzione, successivamente la allena e qui vince il primo campionato della storia del calcio italiano a girone unico. Abbandona il Metodo e introduce il Sistema, l’innovativo modulo di gioco messo a punto dal genio di Herbert Chapman. Guida il Bologna quando arrivano i primi segnali di inquietudine e deve fuggire rapido dall’Italia a causa delle nuove leggi razziali. Niente e nessuno può opporsi, mette in salvo la famiglia in Francia a Lilla dove allena l’Olympique Lilloise, ma per poco, la situazione precipita anche lì e allora la fuga in Olanda, Dordrecht diventa la terra promessa. Ma anche qui arriva l’inferno in un pomeriggio di sole. Arpád è a passeggio per le vie di Dordrecht con l’intera famiglia quando finisce in una retata delle truppe naziste, fine di tutto. I tedeschi sono entrati in Olanda quasi senza sparare un solo colpo, a lui hanno subito impedito di seguire la squadra, non può neppure presentarsi in qualsiasi impianto sportivo, il signor Willem van Twist gli passa comunque lo stipendio ma deve cucirsi la stella gialla sul suo bel cappotto. Vengono tutti e quattro caricati su un treno diretto a Westerbork il più grande campo di concentramento olandese, solo un contrattempo gli dicono e gli fanno pagare il biglietto del treno. È il 7 agosto del ’42, l’Olanda è dichiarata Judenrein, i 150mila ebrei del campo di Westerbork vengono deportati ad Auschwitz in Polonia, fra loro l’intera famiglia Weisz. Il giorno successivo al loro arrivo la signora Ursula e i piccoli Roberto e Clara di 12 e 8 anni entrano assieme nel forno crematorio di Birkenau. Arpád ai lavori forzati. Quando l’esercito russo il 27 gennaio entra in Auschwitz di lui c’è solo una manciata di ceneri biancastre sparse sui tetti delle gabbie, dopo un breve volo nel cielo.