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 2021  dicembre 24 Venerdì calendario

Parla Marcell Jacobs

Se lei si chiamasse Lamont Marcell Jacobs, fosse nato a El Paso in Texas e fosse cittadino americano, le sarebbero arrivate certe accuse?
«Assolutamente no».
Pausa. Sorriso. Corpo che ondeggia.
«Assolutamente no», ripete.
Si sta per chiudere l’anno in cui l’Italia ha conquistato l’oro dei 100 metri alle Olimpiadi, e non bisogna aggiungere altro. Dodici mesi fa, di questi tempi, non sarebbe stato nemmeno immaginabile, ma è successo davvero, ed è stato talmente folgorante che Lamont Marcell Jacobs, nato a El Paso in Texas ma italianissimo, resta sospeso in quella notte all’Olympic Stadium di Tokyo.
Nel mezzo, vacanze in Messico, apparizioni pubbliche, viaggi a Dubai, premiazioni (l’ultima ai Collari d’oro alla presenza del premier Mario Draghi). Tutto, tranne una gara, anche se il momento si avvicina, a Berlino il 4 febbraio.
Jacobs, sogna a ncora la finale?
«Non l’ho mai sognata, l’ho fatto talmente tante volte prima che adesso che l’ho corsa è sparita dalle mie notti. Con la testa sono già sui prossimi obiettivi, il 2022 sarà un anno importante, e ci arriverò da campione olimpico: ho delle responsabilità».
In mezzo a rivali che spesso avevano una mimica da gang, lei sorrideva.
«È venuto tutto naturalmente, non volevo dimostrare qualcosa che non sono: era una delle poche volte nella mia carriera in cui ero così sereno.
Ero contento di essere lì, lavoravo da tutta la vita per quel momento e me lo stavo godendo».
I suoi 100 sono sembrati una prova a eliminazione.
«Posso capire Trayvon Bromell che arrivava da favorito ed è uscito in semifinale, è difficile gestire una tensione così importante, soprattutto se vieni da anni di infortuni. Il cinese Su in attesa della finale ha fatto una quindicina di prove sui blocchi, stava sprecando troppa energia. L’inglese Zharnel Hughes, che stava accanto a me in corsia, non è un gran partente, ha provato a trovare lo sparo perfetto e gli è andata male: squalificato.
Arrivati a quel punto, i 100 sono una gara a chi sbaglia meno, 2-3 centesimi regalati possono significare due-tre posizioni in meno».
Quei cento metri: un oro nemmeno immaginabile fino a qualche giorno prima che provoca due conseguenze. Dai Paesi abituati a vincere partono accuse. Il suo allenatore Paolo Camossi, viceversa, vede in quel 9’’80 la possibilità di un ulteriore miglioramento fino a 9’’62.
«Cominciamo dalle accuse. Non è vero che non mi conoscevano, lo stesso Fred Kerley (l’americano medaglia d’argento, ndr ) che ha dichiarato di non sapere chi fossi, a maggio aveva visto un video di una mia partenza che gli avevo mandato – siamo amici sui social – e sa cosa mi ha scritto? “Se parti così fai 9’’80.
Esattamente il tempo che ho fatto nella finale di Tokyo. De Grasse l’avevo battuto a Montecarlo, e agli Europei indoor nei 60 ho stabilito il miglior tempo mondiale dell’anno.
Sono tutte bugie, sapevano bene chi fossi. Stanno solo rosicando, gli dà fastidio che non abbia vinto un loro atleta. Ora veniamo a quel che dice il mio allenatore».
Il super tempo che prevede, tra l’altro dopo l’asportazione di un dente che ha permesso un riequilibrio delle due gambe.
«Io mi sono sempre affidato a Camossi, il 9’’80 realizzato in finale era con vento zero, se avessi avuto 1.5 o due metri a favore, il tempo sarebbe quello, tutto sommato non ha sparato una cifra così impossibile».
Nonostante la gloria di Tokyo, continua ad allenarsi in mezzo ai dilettanti allo stadio Paolo Rosi di Roma.
«Il mio sogno olimpico nasce quando ero bambino, però Roma è stato uno dei centri in cui si è realizzato. Vedere altre persone, essere di stimolo mi piace. Di spazio ce n’è, non serve riservare una pista solo per me».
Dicono che va a consolare i bambini che sbagliano una gara.
«Lo faccio non soltanto con chi perde, ma con tutti, cerco di spronare i più giovani ad avere un obiettivo ricordandogli che non ti regala niente nessuno e saranno più le volte che va male che bene. Bisogna saper consolare. Io ero il primo a dover essere consolato, ero triste per le gare che andavano male, ma tutto questo serve a crescere, a farti capire esattamente dove vuoi arrivare».
Totti al culmine della carriera diceva di non potersi fare una passeggiata a via del Corso, lei invece a Roma ci sguazza.
«Sento che non è cambiato nulla, sono lo stesso e faccio esattamente le stesse cose di prima. Vengo riconosciuto molto di più per strada, ma le persone sono rispettose, non mi fotografano ma mi salutano, si rendono conto di quanto possa essere pesante posare per foto su foto. A Roma vivo super tranquillo».
Molti avrebbero voluto vederla in pista dopo Tokyo, invece lei si è fermato subito.
«Ma dovevano vedere come stavo. Gli italiani mi hanno conosciuto alle Olimpiadi, ma era da febbraio che gareggiavo. Quando ho vinto due medaglie d’oro, tutta l’energia nervosa si è completamente spenta.
Se fossi finito secondo avrei fatto tutte le gare perché avrei rosicato. Poi c’era un’altra stagione impegnativa davanti, abbiamo deciso di staccare prima e ripartire prima. Ora andrò a Tenerife un mese per preparare la stagione indoor. Il mio primo obiettivo saranno i 100 individuali, la staffetta è importante ma io corro anche per me stesso».
Dopo gli anni di Alberto Tomba, di Valentino Rossi, in Italia c’è un vuoto accanto al calcio e alla Ferrari: sarete voi dell’atletica a riempirlo?
«Tanti risultati li abbiamo già portati, ora dobbiamo ripeterli in un anno con due mondiali e un europeo. È un’altra grande possibilità per far capire com’è bello il nostro sport».
Dunque, se fosse americano non l’avrebbero accusata.
«Assolutamente no».
Eppure gli Stati Uniti, nazione mitica per tante generazioni di italiani, fanno parte della sua storia.
«In Italia sto benissimo, sennò sarei andato a vivere lì. Gli Stati Uniti mi piacciono, ci sono andato in vacanza, mi piacerebbe tornarci per visitare posti che non ho visto. Ci sono nato, la famiglia di mio papà è tutta là. C’è sangue americano, che scorre nel mio corpo. Però io sono cresciuto solo in Italia, quindi non ho mai avuto il dubbio se scegliere tra una nazione e l’altra. L’Italia è quella che avrei scelto sin dall’inizio, e solo con quella sarei rimasto. Negli Stati Uniti non so se andrei mai ad abitare».
Lei e “Fausto” Desalu avete in comune madri sole che hanno fatto
sacrifici per tirarvi su: quello della 4x100 è stato l’oro delle mamme?
«Io e Fausto abbiamo vissuto un’infanzia felice, ma rivedendola con gli occhi da adulti abbiamo capito quanto le nostre mamme facevano fatica per darci il minimo indispensabile per farci vivere bene.
Mia madre è stata la prima a credere in me, quella che mi spronava a continuare nonostante le difficoltà».
Una medaglia d’oro delle madri, e un po’ meno dei vostri padri?
«È esattamente così».
“Finally” ha scritto su Instagram quando ha incontrato Armani.
«È stato bello conoscere Re Giorgio. È un’icona che porta l’Italia nel mondo. Eppoi mi ha scritto quando ho vinto».
È stato ospite nel suo hotel nel Burj Khalifa di Dubai, il grattacielo più alto del mondo: non tutti sono in grado di salire in cima.
«E io mi sono guardato bene dal farlo. Ho avuto paura solo a stare nella stanza al 35° piano. Mi sentivo male, avevo le vertigini. L’altezza non fa per me, come il volo».
L’uomo più veloce del mondo ha delle paure?
«Eccome».
Quali ha affrontato e sconfitto?
«Nessuna, nel senso che me le tengo.
I ragni non li posso nemmeno vedere. Gli aerei li devo prendere, ma che posso fare? Cerco di non guardare fuori dal finestrino».
L’Italia, gli Stati Uniti, ma anche l’Ecuador di Nicole che sposerà il 17 settembre: quante culture nella sua famiglia.
«C’è sempre una guerra in cucina, perché Nicole adora il ceviche (una zuppa di pesce crudo marinato nel limone molto diffusa nell’America Latina, ndr).A me piace, però non tutti i giorni. Cerchiamo di alternare però vince sempre Nicole. Certo, come si mangia bene in Sudamerica».
In mezzo a sprinter proiettati sulla carriera, lei è uno dei pochissimi campioni padri.
«Credo che riuscire a trovare un equilibrio perfetto, sia in pista che fuori, avere una famiglia che ti sostiene, dei bambini, delle responsabilità, ti dia quel qualcosa in più per concentrarsi meglio e correre ancora più forte. Non lo fai solo per te stesso, ma anche per loro: sai che potresti cambiargli la vita».
Quale parte del suo passato si porta dietro?
«Tutta la parte del bambino che sono stato. È importante ogni tanto tirare fuori il bambino che c’è in noi e utilizzarlo. Ti fa ricordare il bello della vita in momenti in cui affronti difficoltà, fatichi, hai tanto pensieri per la testa. Tornare bambini fa bene, coi miei figli a casa riesco a trasformarmi. Facciamo mille giochi, quello mi fa essere veramente felice, mi aiuta a essere più spensierato».
Che giochi fate?
«Col Lego, a fare le costruzioni, o con le piste delle macchinine. Abbiamo comprato un set da medico e da dentista perché Anthony vuole sempre auscultarti come un dottore, usa una batteria dell’iPhone come stetoscopio, ci fa la pulizia dei denti.
È molto avanti».
L’atletica non è nel loro destino?
«Spero che trovino un’altra strada, mi auguro che non sia l’atletica, non mi piacerebbe se si sentissero in competizione con me, che volessero battermi, o al contrario dicessero a se stessi “mio padre ha fatto questo quindi io non ci riesco”».
Chi la conosce bene parla di sue lacrime, anche quando ha dovuto abbandonare il salto in lungo.
«In passato non è stato facile, ma ho sempre creduto di farcela. I pensieri sono molto più forti dei fatti: se vuoi cambiare il tuo futuro devi cambiare i tuoi pensieri adesso. Io ho vissuto più delusioni che felicità, poi ho raggiunto la felicità più grande».
C’è qualcosa che vorrebbe cambiare nel suo passato?
«Credo che rifarei tutto, visto che mi ha portato a coronare il mio sogno.
Tutto quel che mi è successo me lo sono portato dietro fino a vincere la medaglia d’oro. Quel che sto vivendo è esattamente quel che immaginavo».