La Stampa, 24 dicembre 2021
Ritratto di Pietro Castellitto
La sincerità disarmante con cui, ai tempi delle prime interviste, parlava della sua famiglia famosa, di suo padre Sergio e della madre scrittrice Margaret Mazzantini, è stata la carta di identità con cui Pietro Castellitto, nato a Roma il 16 dicembre del ‘91, si è presentato nel mondo dello spettacolo. Alle domande inevitabili sul ruolo di figlio d’arte rispondeva senza peli sulla lingua, facendo capire subito che, con quel problema, stava facendo ancora i conti. D’altra parte come non capirlo? La prima volta sul set risale a Non ti muovere, il film del padre tratto dal libro della madre in cui ha recitato a solo 13 anni. Da allora, è stato un crescendo di apparizioni, impegni, curiosità dei media. Non aiutavano, a far dimenticare i celebri natali, i tratti somatici, gli occhi blu di Mazzantini, il naso prepotente di Castellitto. L’unico modo per venirne fuori era essere talmente bravo, talmente creativo, da riuscire ad attirare su di sè tutta la luce del palcoscenico: «Se non avessi avuto quello scoglio da superare me la sarei presa più comoda, e invece ho sempre lottato con la voglia di fare cose talmente belle che facessero dimenticare di chi fossi figlio. Poi, magari, non ci sono riuscito, ma è stata la spinta in più». Raggiunto l’obiettivo, prima con l’esordio alla regia dei Predatori, poi con la serie su Francesco Totti Speravo de morì prima, adesso con il primo romanzo Gli Iperborei (Bompiani) è arrivato, puntuale, l’inevitabile scivolone scatenato da una frase facilmente equivocabile in cui Castellitto ha paragonato i quartieri bene di Roma Nord a un Vietnam da cui è difficile venir fuori senza traumi, non contaminati dall’idea che, nella vita, contino solo soldi, bellezza, successo.
Apriti cielo, i social gli si sono scatenati contro, ma si sa che le polemiche online si bruciano a forza di click. Di Castellitto restano, indubbie, le qualità speciali, un’intelligenza acuta mescolata a un’emotività malinconica che fa a pugni con il vitalismo dell’età: «Il mestiere dell’attore - diceva a Venezia - è nostalgico per sua natura, svanisce presto, tende a evaporare, ha senso quando si ha la fortuna di creare personaggi che rimangono nella mente delle persone». Con il suo Cencio, stralunato domatore d’insetti dalla chioma albina nel kolossal di Gabriele Mainetti Freaks out, l’impresa è totalmente riuscita: «Per interpretarlo non ho pensato a nessuno, non avevo riferimenti, ma non mi era mai capitato di emozionarmi pensando alla sua vita, al suo passato e al suo futuro, tutte cose che sullo schermo non si vedono». Nemmeno Cencio è però riuscito ad allontanare Castellitto dalla sua passione più radicata: «Tutto parte dalla scrittura, recitare è come riscrivere dando ai personaggi tridimensionalità, perciò continuerò a scrivere per sempre, nella speranza di riuscire a fare solo quel che mi fa sentire libero. Un libro rimane per sempre, i film sono legati alla visione, poi li devi recuperare».
Forse andrà cosi con Gli Iperborei: «Non mi è sembrata una cosa folle pensare di scrivere un libro, era tutto sommato in linea con quello che faccio da dieci anni a questa parte. E poi, per il tipo di storia, per i modi in cui i sentimenti entravano in gioco e la quantità di sfumature psicologiche, la vicenda mi sembrava più giusta per un romanzo che per un film». Insieme al film del debutto (premio Orizzonti per la miglior sceneggiatura a Venezia, David di Donatello e Nastro d’argento 2021 per il miglior esordio), Gli Iperborei compone una trilogia sulla giovinezza: «Tutti e tre nascono da una necessità, dalla voglia di dire qualcosa. Poi le modalità sono diverse e quindi anche il format». I momenti che hanno segnato Castellitto, nel suo cammino fitto di certezze filosofiche e fragilità legate all’età, sono tanti, diversi, per peso e per misura. Girando la serie sul suo idolo Totti ha capito che «quando provi emozioni vere lo snobismo, i preconcetti, le finte o vere ideologie, decadono». Eppure è stato sul set di Freaks out, tra le scenografie della Roma occupata e dei rastrellamenti nazisti, che ha provato la scossa più forte: «Vedere i figuranti con le divise e i fucili dei soldati nazisti mi ha quasi impaurito, quel miscuglio di realtà e finzione mi ha turbato profondamente».