La Stampa, 24 dicembre 2021
2021, tra i migliori anni della nostra vita
Chi fu a dire: «Sarà un anno bellissimo»? In fondo aveva soltanto «con l’agile speme precorso l’evento», sbagliato la profezia di un biennio appena. E quando si è avverata aveva la valigia sul letto e il taxi sotto palazzo Chigi. L’avesse ridetto all’inizio del 2021 non ci avrebbe creduto nessuno, perché nel frattempo era venuto giù il mondo e l’Italia era stata tra le prime a pagarne le conseguenze. Ma la bellezza suprema degli accadimenti sta proprio in questo: che non te li aspetti. Che non ci sono le premesse. Anzi. È così che si affacciano con quel che di miracolistico che ti spinge a credere nell’ineffabile. O nel premier che piace a chi conta. O in quel fattore molto nostrano che alcuni chiamano «stellone» e altri «fondoschiena». Resta il fatto che, mentre in Inghilterra si celebrava la replica dell’annus horribilis proclamato a suo tempo dalla Regina, da noi andava in scena, inatteso e inarrestabile, uno dei migliori anni della nostra vita. Al punto che il settimanale politico-economico The Economist, che ci aveva fin qui trovati «unfit», indattti, per qualsiasi cosa, ci ha proclamati «Paese dell’anno». Da relativisti convinti dovremmo aggiungere che a glorificare il nostro 2021 è il confronto con il predecessore e staremmo attenti all’erede, ma prima di legittimamente preoccuparcene rimaniamo ancora un po’ avvolti nella tiepida coperta che dura ancora una settimana. E se era la grande illusione, svegliateci quando l’ultimo tappo avrà annunciato che è finita.
Ex ultimi della classe
Eravamo gli ultimi della classe. Più o meno. Quelli a cui veniva fatta la ramanzina dai più bravi e da certi spocchiosi che avevano fondato un circolo di rara tristezza chiamato «I Frugali». La nostra attendibilità sulla scena internazionale era prossima allo zero. I premier che mandavamo ai summit nelle foto di gruppo non li mettevano in prima fila. Finita l’epoca dello sconsiderato che faceva le corna, c’era stato quest’altro che veniva trattato come il pupazzo di un ventriloquo (o due). All’arrivo della prima ondata di covid dalla Cina a Bergamo e dintorni si era registrata tanta compassione, ma anche il non detto che ci riteneva un bersaglio obbligato di una qualunque epidemia, dal colera in su, e che faceva pensare al colpo di grazia per un Paese già mal messo.
Poi arriva il 2021 e si scopre che siamo stati più bravi degli altri. Perfino la Merkel sull’uscio si è girata sospirando: «Ah, fossimo l’Italia!». In effetti chiunque si sia vaccinato negli hub come la Nuvola a Roma ha avuto una inedita sensazione di civiltà scandinava, il sogno delle terme nel felliniano Otto e mezzo applicato a una pratica di massa: cure a tempo di musica. Poi avremo avuto i no vax, ma da noi erano pochi e facevano molto rumore; altrove, più silenti, erano tanti e contagiosi. Si è rialzato pure il Pil, più che in ogni altra nazione europea (oltre il 6%) e quando esportavamo il premier lo riconoscevano e ne avevano addirittura una certa soggezione, risalente al tempo in cui, da banchiere, dava le carte. Al momento della consegna dei compiti, a leggere i voti presi dall’Italia, devono pensare che abbia copiato. Ma da chi? All’improvviso ci si è accorti della mancanza di un modello di riferimento: sta a vedere che lo diventiamo noi. Uno dei più triti fra i presunti indizi della grandezza è sempre stato lo sport. È un’equazione zoppa eppure ci si sono aggrappati regimi e democrazie: non si è potenza se non lo si è anche in quel campo. All’improvviso l’Italia è passata in testa. Con la rincorsa, come quegli atleti che sbucano dal fondo, un lampo nell’oscurità.
La tempesta perfetta
Una tempesta, in verità. È cominciata con gli Europei di calcio e proseguita con le Olimpiadi in un crescendo così inarrestabile che più d’uno l’ha ritenuto sospetto: ma le prove? Agli atti: un misto di magia e di estrema fortuna. La Nazionale di Mancini gioca bene, con la testa prima che con i piedi, ma vince semifinale e finale ai rigori con tiratori e portiere che vanno oltre i propri limiti (prima di rientrarci). Lo slancio a Tokyo viene dato da un quarto d’ora mai visto e irripetibile in cui un saltatore si prende un oro ex aequo per liberare in tempo una pista dove un velocista si ritrova con le scarpe giuste al momento giusto, la corsia di fianco svuotata per lasciare spazio ai suoi gomiti e lanciarsi in un tempo che non farà probabilmente mai più. Sembra la pubblicità di una ditta di abbigliamento sportivo: impossibile è niente. E allora tutto diventa alla portata. Alle Paralimpiadi, nella pallavolo (hai appena finito di non credere all’europeo femminile che arriva l’insospettato maschile), a Roubaix, nel tennis: dovunque ci sia una gara c’è un italiano sul podio, come minimo. E se lascia, come fa Valentino Rossi, è una cerimonia dell’addio mondiale, la Terra si ferma per un secondo sotto le sue ruote.
Il circolo virtuoso
È uno strano cascame di successi. Come se una vittoria chiamasse l’altra, se quell’inno che la cerca affannosamente per porgerle (sa Mameli perché) la chioma avesse finalmente trovato l’indirizzo del suo anelito. C’è una doppia soddisfazione in questa serie di eventi favorevoli: la cosa in sé si somma alla reazione altrui. La "rosicata" degli inglesi, l’attestato di stima dei tedeschi, il silenzio dei francesi.
Pubblici entusiasmi
È qui la festa, anche se proprio l’eccesso di pubblici entusiasmi, il pullman scoperto tra le ali di folla, i ritrovi sovraffollati per assistere all’ennesimo miracolo, a quel punto invocato e atteso, aprono falle di mezza estate nella deriva del virus. Però, vuoi mettere? Quando anche i Maneskin vincono l’Eurovision se ne traggono auspici definitivi. Non può essere un caso. Il cielo sta cercando di dirci qualcosa: in hoc signo vinces, anche se il segno non l’abbiamo colto. Vinto, però sì. A novembre, riaperta la tratta per l’America, mi sono ritrovato in metropolitana su un vagone della linea F: un ragazzo chiedeva l’elemosina dopo essersi esibito in Beggin’ , mentre il complesso aveva appena trionfato a Las Vegas sul palco con i Rolling Stones. Sta a vedere che Bob Dylan fa una cover di De Gregori.
Nuove conquiste
A quel punto ci si è messi a scorrere l’elenco premi e concorsi per vedere che altro si potesse conquistare. Ah, già: il Nobel. Adesso non esageriamo. Detto, fatto: a Giorgio Parisi, per la fisica. Per l’Oscar ci stiamo attrezzando. Ma non è il premio la vera misura della bellezza e così si può già dire che il 2021 è stato bellissimo perché sfiorato dalla mano di Dio nella rievocazione dell’adolescenza di Paolo Sorrentino.
La sorpresa collettiva
Ecco il problema: a volte si confonde la vittoria con il suo fondamento, la giustizia con la giuria, la bellezza con ciò che piace. E il tempo, il tempo noi lo tagliamo a fette come una pizza 4 stagioni e valutiamo un pezzo alla volta. Chiamiamo anno questo spicchio e gli attribuiamo una personalità. Tutti contenti per questo bel Signor Ventuno. Tanto che fra una settimana, dove si potrà, riconoscenti lo bruceremo in piazza e accoglieremo il nuovo, il signorino Ventidue.
La speranza della semina
Lì sta il problema: se si passa dalla scatto al flusso e non si è ben seminato, il fiore non sboccia. Nel flusso la tartaruga viene sorpassata da Achille alla grande, altroché paradosso di Zenone che la vuole sempre avanti. Pare brutto scriverlo, ma è appena cominciato qualcosa che può trasformare una gloriosa estate nell’inverno del nostro scontento. Il calendario dice che ci siamo dentro da tre giorni. Già sono tornate le zone colorate dalla pandemia. L’alfabeto greco provvede nuove ondate. Si perdono le certezze sulla durata dello scudo vaccinale. La tregua politica si infrange sul colle, nell’annunciata incapacità di trovare un accordo sul nome per il Quirinale che non lasci scoperta la casella di palazzo Chigi o nel rischio di portarci uno storicamente "unfit". La Nazionale campione d’Europa si è dissolta nella qualificazione ai Mondiali e dovrà giocarsi due spareggi per arrivare in Qatar, ritrovando le perdute certezze di sé. Al prossimo Sanremo magari rivincerà Iva Zanicchi, come già (l’ultima volta) nel 1974, passato alla storia come l’anno dell’inflazione galoppante (oltre il 40%). Il pil del 2022 è dato in ribasso di 2 punti, ma ci metteremo la firma.
L’attesa del voto
Magari si vota e ci prendiamo una stagione di campagna elettorale furibonda. O non si vota, e ci prendiamo un anno di campagna elettorale travestita. È noto, non si può mai stare sereni: la vita è un elettrocardiogramma impazzito, devi preoccuparti quando sei sul picco, è da lì che si vede la discesa verso il fondo. Però, finché possiamo, godiamoci questa inerzia positiva, magari cercando di capire come farla durare invece di frenare bruscamente e invertire la rotta. È vero che in certi casi manca il fondamento. Non esiste ad esempio un vero movimento calcistico, un campionato di livello, dei vivai coltivati dietro il successo estemporaneo di Mancini e dei suoi uomini. E Jacobs può essere stato un fulmine in un cielo terso, ma altrove ci sono basi più solide di quanto si creda. Lo stesso Draghi è il portato di una cultura del fare, dell’amministrare, del correggere e pazientando decidere che ha tenuto in piedi il Paese nei momenti più difficili e di cui non è esponente unico. Nella versione spregiativa l’hanno chiamato "deep state", quello che muove le carte, ma lo fa per sistemare conti senza falsificarli, modificare leggi rendendole costituzionalmente legittime e non aberranti. C’è una creatività che circola partendo da nuove fonti: un Sud capace di inventare nuovi fenomeni culturali. Soprattutto, è il salto generazionale che va osservato: si sta scavando un solco tra chi guida ora e chi lo farà domani, un’intera fascia d’età viene relegata al ruolo di passeggero permanente, ma può essere un bene. La vera sfida a cui si è chiamati dopo una così ricca sequenza di vittorie è spalmarne l’effetto, cambiare i picchi assoluti con crescite relative, ma diffuse. Con un gioco di parole molto facile a dirsi, ma altrettanto difficile a farsi: bisogna saper passare dal Paese dell’anno 2021, al 2022, anno del Paese.