La Stampa, 24 dicembre 2021
Sylvester Stallone pittore
Dietro Rocky c’è un uomo che non era poi neanche tanto sicuro di voler tirare pugni. Un personaggio che non riusciva a farsi vedere e che precede il film, la sceneggiatura, i muscoli. Sta in un quadro dipinto da Sylvester Stallone con una sorta di effetto Dorian Gray distorto: sulla tela la fragilità e la confusione, al cinema la fisicità e la convinzione. E ogni lato di questa singola persona ha viaggiato per conto proprio.
Stallone festeggia i suoi 75 anni, compiuti la scorsa estate, con una mostra che svela la parte meno conosciuta della sua carriera e smonta quasi tutto quello che si pensa quando ci si riferisce a lui. Cinquanta opere esposte all’Osthaus Museum di Hagen, in Germania, dove sfilano scheletri di protagonisti inquieti, dove il mondo si scioglie, ogni titolo è un dubbio e ogni profilo si porta dietro un’inquietudine. Dove cuori sproporzionati viaggiano su barchette di carta.
La passione di Stallone era nota e da una decina di anni la galleria svizzera che lo rappresenta, Gmurzynska, porta in giro i suoi lavori, solo che nelle precedenti uscite, la più importante a Mosca, si sono viste locandine ritoccate, guantoni giganti, quasi scarti di scena. Stavolta Stallone propone i soggetti più intimi e racconta tutta un’altra storia, tanto alternativa da sgonfiare gli Anni Ottanta.
Che il decennio del divertimento e dell’extra large non fosse un monolite di menefreghismo fucsia era noto, ma che uno dei suoi simboli vivesse praticamente un’esistenza in incognito è ben più strano da immaginare. Sly, il Rambo solitario che dà vigore alla versione a stelle strisce della guerra in Vietnam. Il fanatico della palestra che, sì, spalma strati di nostalgia nelle sue interpretazioni e si specializza in solitari traumatizzati e rissosi, però di certo evoca eroi vecchio stile con la sola ansia di non essere amati e mai un dubbio sulla divisione tra buoni e cattivi. L’artista affascinato dall’ambiguità e l’ultima nota non torna. L’attore a cui Trump avrebbe voluto dare un ruolo nella propria amministrazione, la mascella che ha posato con tanti uomini di potere convinti di amplificare la propria influenza con lo scatto macho, ha estratto tanti ruoli dai quadri. E ogni volta ha creato un doppio.
Siamo nella metà degli Anni Settanta, Stallone è frustrato perché il cinema lo cerca sempre per la stessa parte: losco attaccabrighe, guitto di strada, poliziotto corrotto. Le gradazioni più rozze della cattiveria, neanche un malvagio come si deve, confinato a battute squallide. In cerca di altro si inventa un nome e ne tira fuori un volto segnato sotto un collage di parole accartocciate. È «Finding Rocky» e gira per l’East Village, a New York, mostrato ad amici, produttori, scrittori. Sono le strade dei graffiti di Keith Haring, è il periodo in cui sta per emergere Julian Schnabel e non a caso l’artista sarà perseguitato dalla frase di un critico: «Schnabel sta alla pittura come Sly sta alla recitazione». Gli dà dell’esibizionista, ma coglie pure un legame.
Rocky ovviamente si fa e poco resta dell’idea originale incastrata nel quadro. Allora il futuro Rambo vendeva le sue opere, firmate Mike Stallone, per pochi dollari e con la fama il suo rapporto con l’arte si fa ancora più timido. Seguace di Andy Warhol, non ha il coraggio di sottoporgli i suoi lavori, anche se lo conosce ed entra persino nella collezione di polaroid: in quella serie di foto somiglia a «Finding Rocky», i bicipiti non sono oliati e ha l’aria vulnerabile. Anche Rocky nasce così e il primo capitolo della saga, quello da Oscar, si tiene vari tratti di quella prima bozza. Il Rocky numero uno non sa gestire l’aggressività, piange, soffre, mena per sopravvivere, si strugge. Già dal numero due la sicurezza lievita e presto Rocky diventa un gonfiabile usato come pubblicità. Alla fase quattro, rappresenta gli Stati Uniti contro l’Unione sovietica in piena Guerra fredda.
A quel punto Stallone si è già trasferito a Miami, niente più locali artistoidi, niente più invidia per chi frequenta la Factory. Ancora non si fida a mostrare i suoi lavori in pubblico. Teme il pregiudizio, non vuole che le critiche sulla superficialità dei personaggi in cui ha creduto colpiscano quelli che ama davvero e il suo trasporto per l’arte si trasforma in investimento: compra Gerhard Richter, Anselm Kiefer, Francis Bacon. Compra molto meglio di come può dipingere.
Ora che l’età ha creato la distanza ha deciso di riunire i suoi fantasmi intorno a quel Rocky che sullo schermo è diventato plastica, ma sulla tela mantiene la sua carica di semplicità e chiede solo di essere notato. Così come è.