La Stampa, 24 dicembre 2021
Intervista a Papa Francesco
Sono trascorsi pochi mesi dal ricovero al Policlinico Gemelli ma i pensieri di Papa Francesco, nel suo ottantacinquesimo Natale, vanno ancora lì, in particolare ai bambini malati e ricoverati. Li ha visitati nei giorni di degenza lo scorso luglio. E oggi ancora pensa a loro, costretti a passare le feste in ospedale: «Non ci sono parole, possiamo solo aggrapparci alla fede, a Dio, e chiedergli: "Perché?». E ai genitori che hanno i figli fuori dall’ospedale, il Pontefice ricorda «quanto sono fortunati. Li abbraccino forte, e dedichino loro più tempo».
Riceve La Stampa e Repubblica a Casa Santa Marta, Jorge Mario Bergoglio, per una conversazione nell’imminenza delle feste. Parla del significato del Natale oggi, dei poveri, degli emarginati, degli sfruttati, e di come viveva le feste da piccolo, nella Buenos Aires degli anni Quaranta.
Santità, che cosa ricorda del Natale in Argentina?
«Alcune volte andavamo da una zia, alla sera, perché a Buenos Aires e nella nostra famiglia non c’era in quel tempo l’abitudine di festeggiare la vigilia come oggi. Si festeggiava il 25 di mattina, sempre dai nonni. Ricordo una volta una cosa curiosa: siamo arrivati e la nonna stava ancora facendo i cappelletti, li faceva a mano. Ne aveva fatti 400! Eravamo sbalorditi! Tutta la nostra famiglia era lì: venivano anche zii e cugini. Solo da adolescente ho cominciato a festeggiare un po’ anche la vigilia, a casa di una sorella di mia mamma che abitava vicino».
E oggi come vive il Natale?
«Mi preparo bene, perché il Natale è sempre una sorpresa. È il Signore che viene a visitarci, e io vivo questo arrivo con la mistica dell’Avvento: aspettare un po’ di tempo e predisporsi per incontrare Dio, che rinnova tutto in bene. E poi, amo tanto le canzoni natalizie, che sono piene di poesia. "Silent Night", "Tu scendi dalle stelle"… trasmettono pace, speranza, creano l’atmosfera di gioia per il Figlio di Dio che nasce sulla terra come noi, per noi».
A chi pensa in particolare in questo Natale?
«Ai poveri, sempre. Come Gesù, che è nato povero: quel giorno Maria era una donna di strada, perché non aveva un luogo adeguato per partorire. E poi penso a tutti i dimenticati, gli abbandonati, gli ultimi, e in particolare i bambini abusati e schiavizzati. A me fa piangere e arrabbiare sentire le storie di adulti vulnerabili e di bimbi che vengono sfruttati. E poi, penso ai bimbi malati che trascorreranno il Natale in ospedale, non ci sono parole, possiamo solo aggrapparci alla fede, a Dio, e chiedergli: "Perché?". E i genitori che hanno i figli fuori dall’ospedale non si dimentichino quanto sono fortunati, li abbraccino forte e dedichino loro più tempo. Voglio anche spendere qualche parola di ammirazione per il lavoro che compie il personale sanitario di ogni ospedale e reparto pediatrico per alleviare le sofferenze di quei piccoli. Al Bambin Gesù c’è una dottoressa che è il capo: conosce il nome di ognuno dei giovanissimi pazienti. È straordinaria. Noi spesso non ci accorgiamo della grandezza dell’opera quotidiana di questi medici, infermieri e collaboratori sanitari, e invece dobbiamo tutti essere grati a ciascuno di loro».
Pochi giorni fa ha compiuto 85 anni…
«Vi sbagliate, ne ho compiuti 75! (Scherza e ride, ndr)».
Come festeggiava il suo compleanno da bambino?
«In casa eravamo cinque fratelli. Oltre a me c’erano Marta Regina, Alberto Horacio, Oscar Adrian e Maria Elena. Il giorno del compleanno era sempre una festa per tutta la famiglia. Venivano i nonni, gli zii… Mia mamma faceva il cioccolato da bere, molto denso».
Quali erano i suoi giochi d’infanzia?
«Vicino a casa nostra c’era una piccola piazza. Vi arrivavano tre strade e formavano una specie di triangolo. Quello era il nostro campo da calcio. Tutti i ragazzi del quartiere giocavano lì, a volte veniva anche qualche ragazza. Non sempre c’era qualcuno che portava il pallone di cuoio e allora giocavamo con un pallone di stracci, la "pelota de trapo". In Argentina il pallone di stracci è diventato un simbolo culturale di quell’epoca, a tal punto che un poeta popolare ha scritto una poesia chiamata "Pallone di stracci", e c’è anche un film intitolato "Pallone di stracci", che fa vedere questa "cultura" dell’epoca».
Giocava bene a calcio?
«Mi chiamavano "pata dura", letteralmente "gamba dura": questo soprannome me lo avevano dato perché non ero molto bravo. Allora stavo in porta, dove mi arrangiavo. Fare il portiere è stato per me una grande scuola di vita. Il portiere deve essere pronto a rispondere ai pericoli che possono arrivare da ogni parte…».
Ha praticato altri sport?
«Ho giocato anche a basket, mi piaceva perché mio papà era una colonna della squadra di pallacanestro del San Lorenzo».
Da bambino leggeva? Quali libri?
«I miei genitori avevano la preoccupazione di farci leggere. Ricordo che era uscita una collana di venti volumi, "Il tesoro della gioventù". La leggevamo insieme, di pomeriggio. In casa non avevamo ancora la televisione. Più volte, dopo cena, papà ci leggeva a voce dei volumi. Ricordo benissimo che ci lesse tutto "Cuore" di Edmondo De Amicis, e anche oggi ricordo il racconto "Sangue romagnolo", che mi ha colpito tanto all’epoca».
Quale segno le hanno lasciato quelle ed eventuali altre letture, da bambino e da ragazzo?
«Fra i primi libri che lessi da giovane ci fu "Don Segundo Sombra" di Ricardo Güiraldes; e poi i romanzi di Jorge Luis Borges e Fëdor Dostoevskij, e le poesie di Friedrich Hölderlin. Quest’ultimo fu per me una seduzione. E poi, nella adolescenza ho letto "Anni verdi" di Archibald Joseph Cronin: l’ho infine ripreso nella versione italiana, e mi ha aiutato quando ero in seminario a rispolverare la vostra lingua. Queste letture sono state il tesoro della mia infanzia e della gioventù, perché mi hanno trasmesso emozioni forti, indelebili, insieme a quelle che ci leggeva mio padre, a cominciare dal libro "Cuore": ricordo che i miei fratelli e io piangevamo spesso commossi quando lo ascoltavamo. "Cuore" è stata parte della nostra formazione e resta per me un libro indimenticabile. La nonna ci leggeva qualche capitolo de "I promessi sposi", e anche ci aiutava a studiarli a memoria. Recentemente li ho ripresi, perché ogni volta che li apri vi trovi qualcosa di nuovo. Spesso "I promessi sposi" mio padre ce li recitava a memoria e poi ce li spiegava».
Suo padre era un grande e appassionato lettore…
«Sì, leggeva tanto. Aveva una grande biblioteca, ed è diventato una persona colta. Ci recitava a memoria anche Dante. Da lui sentii per la prima volta questi versi: "Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’etterno consiglio, tu se’ colei che l’umana natura nobilitasti sì, che ‘l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura". E poi il terzo canto dell’Inferno: "Lasciate ogni speranza, o voi che entrate". Lavorava tanto per darci da mangiare, ed è riuscito a diventare anche sapiente. Il sabato la radio trasmetteva la registrazione delle opere liriche, e la mamma mentre le ascoltava ce le raccontava. Ci portava anche a teatro, ricordo che vedemmo il tenore Tito Schipa al Teatro Colón».
Quale libro consiglierebbe ai ragazzi di oggi?
«Non consiglierei testi specifici. Ognuno deve avere i propri interessi. Più che un libro consiglierei di leggere. Perché c’è il pericolo della televisione che ti riempie di messaggi che poi non rimangono, mentre leggere è un’altra cosa, è un dialogo con il libro stesso, è un momento di intimità che né la tv né il tablet possono dare».
Com’era un pasto a casa Bergoglio?
«A tavola eravamo cinque fratelli. Si parlava di tutto. Spesso prendendo spunto da La Nación, che era presente ogni giorno a casa nostra».
Da Papa ha mille incombenze quotidiane. Ma ogni tanto ha dei momenti in cui le prende un po’ di malinconia, di nostalgia della giovinezza?
«Quando ricordo le cose belle. Momenti specifici e speciali. Per esempio un compleanno particolare: quando ho compiuto 16 anni. In Argentina si portavano i pantaloncini corti con le calze lunghe fino al ginocchio. Ma a 16 anni il rito prevedeva di iniziare a portare i pantaloni da uomo. A quel tempo era come un’entrata in società. "Ma varda!" (in piemontese significa "Ma guarda!" con espressione stupita, ndr) diceva la gente meravigliata e compiaciuta quando mi ha visto con i pantaloni lunghi dopo che sono andato a comprarli con mamma e papà. Mi ricordo che a quel compleanno mia nonna materna, Maria… ve la mostro in foto, perché era una matrona quella nonna (sorride, si alza e va a prendere una foto dei suoi nonni, ndr). La nonna è venuta a casa mia, mi chiama da parte, e mi dà un po’ di soldi come regalo di compleanno. Poi guarda i pantaloni lunghi, e si mette a piangere, commossa».
E nonna Rosa?
«Era più riservata. Nonna Maria è stata una migrante con la sua famiglia quando aveva 13 anni: subito ha incominciato a lavorare in una casa di francesi, dove si occupava dei bambini, e lì ha imparato la lingua. E poi a noi nipoti cantava tante canzoni francesi. Mentre nonna Rosa parlava poco, ha sofferto tanto, ma capiva tutto. Il primo nonno che ho perso è il materno, Francisco, quando io avevo 16 anni. Nonno Giovanni Angelo se n’è andato quando avevo 25 anni. E poi le nonne quando ero già superiore provinciale dei Gesuiti d’Argentina (tra il 1973 e il 1978). Dei miei nonni e dei ricordi con loro ho nostalgia. Ma la malinconia non mi prende».
Perché secondo Lei?
«Forse per mia formazione personale, non me la permetto. E un po’ forse perché ho ereditato il carattere di mia mamma, che guardava sempre avanti».
Le manca qualche altra persona in particolare che ora non c’è più?
«Penso soprattutto ai miei tre fratelli che sono morti. Ho ancora solo una sorella, Maria Elena. Ma ricordo loro e tutti gli amici serenamente, perché li immagino in pace».
Cinque mesi dopo l’operazione chirurgica al Policlinico Gemelli, come sta?
«Grazie a Dio sto bene. Zoppico solo un po’ perché si sta rimarginando la cicatrice dell’operazione, non sono più un ragazzino, ma sto bene. Dopo l’intervento chirurgico di luglio ho già compiuto due viaggi apostolici internazionali: a Budapest e in Slovacchia a settembre, e a Cipro e in Grecia a dicembre, tornando nel campo rifugiati di Lesbo, dove abbiamo toccato una piaga dell’umanità; e poi, sono andato ad Assisi. E altri viaggi ne farò, se il Signore vorrà, nel 2022».
Ha cambiato le Sue abitudini?
«Nulla è cambiato nella mia giornata: mi alzo sempre alle 4 di notte e inizio subito a pregare. E poi avanti con gli impegni e appuntamenti vari. Mi concedo solo una breve siesta dopo pranzo».
Il mondo sta lentamente uscendo dalla pandemia mentre ancora in più luoghi permangono conflitti e divisioni. Come vede il futuro dell’umanità?
«L’avvenire del mondo sarà florido se sarà costruito e, dove serve, ricostruito insieme. Solo la vera e concreta fraternità universale ci salverà e ci permetterà di vivere tutti meglio. Questo però significa che la comunità internazionale, la Chiesa a cominciare dal Papa, le istituzioni, chi ha responsabilità politiche e sociali e anche ogni singolo cittadino in particolare dei paesi più ricchi, non possono né devono dimenticare le regioni e le persone più deboli, fragili e indifese, vittime dell’indifferenza e dell’egoismo. Ecco, prego Dio affinché in questo Natale trasmetta sulla Terra più generosità e solidarietà. Ma vere, pratiche e costanti, non solo a parole. Spero che il Natale scaldi il cuore di chi soffre, e apra e rafforzi i nostri affinché ardano dal desiderio di aiutare di più chi è nel bisogno».