La Stampa, 24 dicembre 2021
Storie sul Quirinale raccontate da Mario Segni
Oramai possono ricordarlo in pochi, ma c’è stato un tempo nel quale la passione popolare per l’elezione del Presidente della Repubblica era spontanea e palpitante, persino più di oggi. Come dimostra un episodio che riaffiora dalla memoria di Mario Segni, una scena che sembra uscire da un film di Fellini: «Era il 6 maggio 1962, nelle votazioni per l’elezione del Capo dello Stato, si era arrivati alla votazione decisiva: mio padre Antonio – che era appoggiato da Moro - o ce la faceva o tornava indietro. Io allora avevo 23 anni, mi ero appena laureato: quella sera uscii dalla nostra casa in via Sallustiana e mentre stavo passeggiando, notai un bar in via Sistina: era tutto illuminato, dentro c’era tantissima gente e un televisore trasmetteva lo scrutinio, con i nomi degli sfidanti. Saragat, Segni, Saragat, Segni… Il volume era alto e la gente si appassionava alla sfida. Sembrava quasi una gara ciclistica. Ad un certo punto, dal televisore si sentì partire un applauso. Io ero restato sulla porta e pensai che doveva essere stato eletto mio padre. Ma nell’emozione del momento non mi accorsi di una cosa che ricordai in seguito: il barista che mi conosceva, era uscito per strada e mi aveva detto: "Hanno eletto suo padre!"».
Classe 1939, Mario Segni è uno dei personaggi più incisivi nella storia politica italiana a cavallo tra Prima e Seconda Repubblica. Con i suoi referendum per il maggioritario, da una parte ha contribuito a dare un colpo decisivo ad una Dc debilitata ma ancora in piedi, dall’altra ha aperto la strada ad una alternanza regolare tra destra e sinistra che sarebbe durata 15 anni. Ma Segni è anche parte di una famiglia che, al pari di altre famiglie italiane - i Mattarella, i Giolitti, gli Amendola, i La Malfa, i Berlinguer – hanno lasciato un segno nella storia nazionale.
Lei ha eletto tre presidenti della Repubblica: i precedenti, vicini e lontani, ci dicono come finirà questa volta?
«La storia ci dice chi dovrebbe essere presidente, ma non ci dice chi lo sarà. La funzione presidenziale si è andata allargando, questo è il dato. Soprattutto in politica estera. E da questo punto di vista una personalità più indicata di Draghi non esiste. Si potrebbe svolgere a favore dell’Italia quella che è la funzione più importante del Presidente della Repubblica».
Con Draghi al Quirinale si slitta verso elezioni anticipate?
«È una paura umana, che si ritorce contro Draghi. Ma attenzione: dopo una combattuta elezione presidenziale, sarebbe difficile per il suo governo andare avanti. Come presidente della Repubblica invece sarebbe l’unico col prestigio necessario per evitare le elezioni. Se non lo capiscono, commettono un grave errore».
Lei che ricordo ha del Quirinale?
«Il Quirinale era – ed è - un palazzo di straordinaria bellezza, ma nel 1962 a noi apparve come mezzo museo e mezzo caserma. Chi soffriva il Quirinale era mio padre: troppo cerimoniale e poca privacy. Appena poteva, fuggiva a Sassari. Ma riteneva un dovere stare nel Palazzo. Perché considerava il presidente un simbolo degli italiani e - come fece Ciampi - riteneva che gli italiani dovessero sapere dove materialmente si trovasse».
Pertini invece la sera "staccava", come un impiegato: lei lo votò?
«Pertini? Lui e mio padre, pur avendo idee politiche diversissime, avevano un rapporto di reciproca simpatia. Io facevo parte di un gruppo di giovani dc che sostenevano Ugo La Malfa. Pertini diceva a tutti: "Guardate il giovane Segni: ero amico del padre ma lui onestissimo mi ha detto in faccia: le voglio bene, ma non la voterò!". Poi nella votazione decisiva io votai per Pertini, e con grande piacere. Una volta che eravamo da soli, gli dissi: "Presidente, so di darle una grande delusione ma devo dirle che l’ho votata!". Ci restò quasi male! Gli piaceva raccontare che ero stato sincero!».
Lei ha conosciuto da vicino Berlusconi: la candidatura al Quirinale le pare eticamente sostenibile?
«Berlusconi offre qualcosa che anni fa in lui era quasi assente: una garanzia europeo-occidentale rispetto alla destra a lui alleata, che è diventata sovranista e anti-europea. Una novità, ma in questa sua corsa al Quirinale sconta un problema che io gli posi, che era e resta centrale: il conflitto di interessi. Con lui fui intransigente…».
Nel 1993 Berlusconi la voleva in primissima linea: lei come oppose il "gran rifiuto"?
«Gli dissi testualmente: tu puoi immaginare un ministro dell’Industria migliore di Gianni Agnelli? Naturalmente no! Ma se per ipotesi tu lo facessi ministro, non ci sarebbe italiano che non penserebbe alla Fiat! E a quel punto aggiunsi: non puoi entrare in politica. Gli italiani saranno convinti che stai lavorando per le tue aziende».
E lui? Berlusconi paga ancora oggi quella non-scelta?
«Lui non mi ascoltò e un anno dopo vinse, anzi stravinse, le elezioni. Ma quel problema sarebbe diventato una palla al piede. Berlusconi, una volta andato al governo, praticamente non poté occuparsi d’altro: dovette concentrarsi per anni nella difesa di quel conflitto, col varo delle leggi ad personam. Senza iattanza: ritengo di aver avuto ragione allora, ma penso di averla ancora oggi. E ritengo che non aver affrontato quel problema, sia stata la vera ragione del suo fallimento politico ed è un problema che rappresenta ancora oggi un handicap».