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 2021  dicembre 24 Venerdì calendario

Joan Didion era una figa pazzesca

Scrivere è un atto ostile. Lo diceva Joan Didion, che è morta ieri, tre settimane dopo aver compiuto 87 anni, dopo una vita di atti ostili. E dopo aver obbedito all’altro suo comandamento: in caso di problemi, rivolgiti alla scrittura.
Non è poi un così fitto mistero la ragione per cui «è tutto materiale» sia concetto del quale continuiamo a ritenere incarnazione Nora Ephron, che della propria vita si era limitata a usare come materiale il divorzio (pubblico, d’alto profilo, burrascoso, ma pur sempre solo un divorzio); e non Joan Didion, che fece racconto di tutto: del coma della figlia, del marito che durante quel coma muore, della figlia che si risveglia orfana e poi si riammala e muore anche lei.
Se c’è stata una che non ha mai vissuto una tragedia troppo tragica per farne prosa è stata Joan Didion, santa protettrice di tutte noialtre che eravamo assenti il giorno in cui è stato distribuito il ritegno.
La ragione per cui, quando parliamo di rilegare le nostre vite e ricavarne diritti d’autore, parliamo di Ephron e non di Didion è che Ephron ci spaventa meno: era meno gelida nell’esposizione, e soprattutto era bruttina. Didion era una figa pazzesca, che è una frase che avrebbe dovuto aprire quest’articolo: Didion era clamorosa persino a ottant’anni, quando venne fotografata per la campagna pubblicitaria di Celine.
Ed era una figa pazzesca quando, poco più che ventenne, era una redattrice di Vogue, e su un set il fotografo – un tizio di nome Irving Penn, magari ne avete sentito parlare – le chiese di prestare il suo vestito di lino blu alla modella. Ed era una figa pazzesca in posa davanti alla Corvette nella sua foto più famosa, ed era una figa pazzesca in dolcevita nero nella pubblicità di Gap per cui posò negli anni Ottanta – cinquantacinquenne con cui qualunque trentenne avrebbe fatto a cambio – assieme alla figlia.
Se pensate che lo stia dicendo perché era una donna, se siete convinti di credere davvero che l’aspetto d’uno scrittore o d’un intellettuale sia irrilevante, cercate per favore di rendervi conto che state mentendo a voi stessi. Lo dico per voi: non vorrete davvero credere che “Il vecchio e il mare” valga più della foto di Hemingway che ha appena pescato quel colosso ittico assieme a Inge Feltrinelli. Su. Siamo seri.
Il fatto è che, prima, essere una strafiga che gelidamente riversa le sue tragedie nella scrittura faceva di te un pezzo di storia della letteratura; adesso fa di te una cui tocca essere un po’ meno gelida altrimenti il pubblico di Instagram non empatizza.
Se invece pensate che l’autobiografismo sia limitativo e che di Didion vadano citati i reportage a Cuba o a El Salvador, vi prego nuovamente di smetterla di raccontare a voi stessi stronzate che vi fanno sentire persone colte che badano ai contenuti e non all’ombelico dell’autore. Oriana Fallaci avrebbe potuto scrivere altri cento testi sullo scontro di civiltà, e sarebbe sempre e comunque rimasta quella della quale ricordavamo che aveva abortito e che quello stronzo d’un greco le aveva spezzato il cuore. Volevamo sapere i fatti degli autori anche prima dei social, solo che allora non li valutavamo misurandoli a cuoricini, solo che allora distinguevamo tra quelli che sapevano farne letteratura e quelli che sapevano farne solo lagna.
C’è stato un tempo, e Didion ha avuto la fortuna d’abitarlo, in cui non tutto era sentimentalismo, anche l’intelletto; in cui tutto era intelletto, anche i sentimenti. Stroncando Manhattan, il film di Woody Allen, in un articolo del 1979, Didion notava che nell’elenco che il protagonista fa di cose per cui valga la pena vivere c’è L’educazione sentimentale di Flaubert. Ne traeva una precisissima conclusione su Allen, e sul suo pubblico, e forse su di sé: gente terrorizzata di scoprire che ha sbagliato tutto, nella vita, preferendo Madame Bovary. 
Poiché la vita è sceneggiatrice, Didion è morta nella settimana in cui è uscito “Being the Ricardos”, il film di Aaron Sorkin che viene malamente sintetizzato in un film su “I love Lucy”, forse il titolo più importante nella storia della tv americana, e sui suoi protagonisti. Ma in realtà è un film sul problema di Didion e Dunne, oltre che su quello di Lucille Ball e Desi Arnaz, oltre che su quello di Huma Abedin, e di Raffaella Carrà, e di Elsa Morante, e di Nicole Kidman: come sopravvive una coppia al fatto che lei abbia più successo, più talento, più mercato di lui?
Didion applicò il proprio precetto: aveva un problema, e lo risolse con la scrittura. Assieme al marito, John Gregory Dunne, scrisse due film in cui lei è molto più capace di lui, ma deve continuare a sbattere gli occhioni come un Giotto civettuolo, acciocché Cimabue non si senta superato e la sua virilità non venga meno.
Uno dei due film era un remake di “È nata una stella” (quello con Barbra Streisand), un altro s’intitolava “Qualcosa di personale”, e fu uno dei film che più mi fecero piangere da ragazza. Un turpe polpettone kitsch con tanto di canzone strappalacrime di Céline Dion, in cui alla fine Robert Redford moriva (inviato di guerra: l’avevo detto che bisognava stare sul divano a scrivere delle proprie disfunzioni erettili) e Michelle Pfeiffer faceva carriera come inviata.
Joan Didion è sopravvissuta a tutti: al marito, alla figlia, agli intervistatori. Nel 1978 la Paris Review le fece una di quelle meravigliose interviste lunghissime montate a botta e risposta.
Le risposte sono piene di meraviglie: lei scrive per sé, del lettore non gliene importa niente; voleva fare l’attrice, poi capì che era lo stesso mestiere, si trattava di far credere qualcosa a qualcuno; le frasi di Hemingway sono come acqua limpida che scorre sul granito; Anaïs Nin scriveva come un uomo che finga d’essere una donna; niente tempra la tua prosa come scrivere le didascalie per un giornale di moda, dove ogni virgola deve funzionare; il mito della sua fragilità era dovuto al suo aspetto gracile e al fatto che non le piaceva parlare con gli sconosciuti.
L’intervista ha una particolarità. L’introduzione l’ha scritta l’intervistata. L’intervistatrice è morta dopo aver trascritto le risposte, e prima di consegnarla. Joan Didion ha avuto altri quarantatré anni per dimostrare al mondo che, ecco, la notizia della sua fragilità non era proprio fondatissima.