9 novembre 2021
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Biografia di Giorgio Pietrostefani
Giorgio Pietrostefani, nato a L’Aquila il 10 novembre 1943 (78 anni). Latitante. Ex dirigente d’azienda. Cofondatore ed ex capo del servizio d’ordine di Lotta continua. Giudicato mandante, insieme ad Adriano Sofri, dell’omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi (1937-1972), e pertanto condannato in via definitiva a 22 anni di reclusione (ancora da scontare 14 anni, 2 mesi e 11 giorni). «Un innocente non può scappare. Se scappa, è colpevole» (Pietrostefani nel gennaio 1997, al momento del suo ritorno volontario in Italia, tre anni prima di scappare definitivamente alla volta della Francia) • Figlio di Stanislao Pietrostefani, viceprefetto dell’Aquila poi prefetto di Arezzo, e di Elisabetta Centofanti, impiegata presso l’intendenza di finanza dell’Aquila. Alle scuole elementari e alle medie fu compagno di classe di Bruno Vespa, insieme al quale partecipò anche ad alcuni tornei di tennis. «Giocavamo il doppio senza amarci. Diversi nello stile come nel carattere: lui colpiva di potenza, io di precisione. Il più bravo era lui» (Bruno Vespa). «Giorgio aveva un carattere turbolento. Era il cocco di un insegnante piuttosto ossequioso verso l’autorità, e il padre di Giorgio era viceprefetto» (Vespa a Giovanna Casadio). Una volta diplomatosi, nel 1962, abbandonò L’Aquila per iscriversi alla facoltà d’Ingegneria dell’Università di Pisa, «L’università fu occupata per la prima volta nel 1964. Io naturalmente votavo per proseguire l’occupazione: per riaprire l’ateneo furono mobilitati gli studenti dei collegi delle monache e gli iscritti al Pci. Così mi iscrissi al Pci pure io. Ero più a sinistra, ma pensavo che bisognasse stare “dentro e contro”. Entrai anche nell’Unione goliardica: il capo era Franco Piperno, c’era anche una ragazza che sarebbe diventata mia moglie, Fiorella Farinelli. I momenti più attesi erano quando arrivavano i tre santoni: Mario Tronti, Alberto Asor Rosa, Toni Negri. Non si faceva altro che parlare di classe operaia, avevamo la religione della classe operaia, l’operaio era Dio fatto uomo, ma non ne vedevamo uno: solo qualche ex, divenuto funzionario del partito o del sindacato». «Gli operai veri, anima e sangue, li incontrammo un paio di anni dopo, quando irruppe nella nostra vita Adriano Sofri, che allora insegnava nelle scuole. Ci propose di fare insieme un giornale, Potere Operaio, da distribuire in tutte le fabbriche del litorale toscano. Adriano era stato espulso dal Pci, così ci facemmo cacciare tutti: “fuori e contro”, senza compromessi e mediazioni. A Pisa vivevamo in pratica a casa sua: c’erano due bambini, quindi tutto funzionava regolarmente, il frigorifero era sempre pieno, si mangiava tre volte al giorno; per noi, che a volte non sapevamo neppure dove andare a dormire, era un paradiso». «Volevamo fare la rivoluzione e ci divertivamo un mondo. Io ero a Pisa quando venne Togliatti. Il Pci per anni cercò di recuperarci, ma noi eravamo troppo estremisti. Una volta, ricordo, fu mandata la Rossanda a dirci che eravamo “compagni che sbagliano”. Per solidarietà agli operai di una fabbrica occupata, distruggemmo le porte dello stadio di Pisa, che aveva appena iniziato a giocare in Serie A. Ci sembrava che il calcio non potesse andare d’accordo con la lotta di classe…» (a Maria Novella De Luca). «L’inizio di tutto fu la Bussola. Avevamo stampato in mezza Toscana manifesti a lutto con la scritta “Il 31 dicembre a Viareggio faremo la festa ai padroni”. Adriano si arrabbiò molto con Paolo Brogi e con me per quella che gli pareva una caduta di stile. La notte di San Silvestro del 1968 ci tesero una trappola. Noi strappavamo i papillon e tiravamo i pomodori ai malcapitati che andavano a festeggiare il Capodanno, qualcuno aveva riempito sacchetti di vernice rossa (altri, esagerando, di escrementi), che lanciava contro le signore in lungo. Noi tiravamo sassi ai carabinieri schierati di fronte alla Bussola. D’un tratto, su una di quelle barricate improvvisate, cadde un ragazzo. Vedevamo le fiammate delle pistole, qualcuno gridò: “Sappiamo che sparate a salve, non ci fate paura!”. Invece erano proiettili veri. Soriano Ceccanti rimase paralizzato. Fiorella e altri furono arrestati e fecero mesi di carcere. Io evitai il rastrellamento nascondendomi in un cespuglio». Nel 1969, dopo aver trascorso un periodo a Milano, «“quando esplose la rivolta di Mirafiori andai a Torino, dove c’era già Sofri, che viveva a casa di Luigi Bobbio, il figlio di Norberto. […] Una cosa da pazzi, l’autonomia operaia che avevamo vagheggiato con Tronti e Asor Rosa ce l’avevamo sotto gli occhi: operai che non avevano studiato, che non sapevano neppure parlare decidevano scioperi con cui bloccavano le carrozzerie Fiat, una fabbrica da 15 mila lavoratori. […] Per due settimane fummo i padroni dell’assemblea operai-studenti. In fondo a un manifesto scrissi: ‘Vinceremo’. Adriano si arrabbiò moltissimo. Io mi difesi dicendo che pure il Che finiva così i suoi appelli. Lui invece volle che si scrivesse sempre ‘La lotta continua’”. […] Poi Pietrostefani torna a Milano. “Passai la selezione per essere assunto all’Alfa Romeo, […] parlando dialetto abruzzese. Pensavo di partecipare alle lotte operaie dal di dentro. Rinunciai dopo piazza Fontana, quando scoprimmo che la priorità era la controinformazione, l’antifascismo, la politica”» (Aldo Cazzullo). Nel frattempo, nell’autunno «caldo» del 1969, era stata fondata Lotta continua, di cui «Pietrostefani diventò uno dei capi carismatici. […] “Ero il capo della commissione operaia. Ho fatto picchetti duri, ma non ero il capo del servizio d’ordine di Lc”. Eppure Curcio gli attribuisce l’offerta di far diventare le Brigate rosse il braccio armato di Lotta continua. Eppure Alberto Franceschini lo ha definito il capo dell’ala militarista di Lc» (Vespa). «Intellettualmente non era molto raffinato, ma nel tenere in mano l’organizzazione di Lotta continua era insuperabile. Era questo il giudizio che i militanti e i simpatizzanti del gruppo extraparlamentare solevano ai tempi esprimere su Giorgio Pietrostefani, numero due, a livello nazionale, di Lotta continua. […] Era lui che teneva i contatti politici, ed era sempre lui che assicurava il perfetto funzionamento di tutti gli apparati del gruppo. Dunque, non un violento per i compagni, ma sicuramente un tipo dalle idee chiare, considerato glaciale» (Carlo Lovati). «Coloro che negli anni ’70 progettavano di prendere il potere indulgevano a volte, chi per svago e chi no, a discutere la lista dei ministri del loro governo. […] Nei progetti (scherzosi) di Lotta continua gli Interni sarebbero andati a un ex iscritto al Pci, espulso nel ’67 per deviazionismo. Per la sua durezza, Giorgio Pietrostefani era chiamato dai compagni Pietro, o anche Pietrostalin. Capace di dire a una delle future leader del femminismo italiano, entrata senza preavviso nella stanza delle riunioni: “Adesso esci, bussi, chiedi permesso ed entri”. O di intimare a una scrittrice di successo di non presentarsi più in collant, “ché così distrai gli operai”» (Cazzullo). «Ritorna all’Aquila nel ’71 durante i giorni della rivolta per il capoluogo (sembrava che la “capitale” dell’Abruzzo dovesse diventare Pescara) e partecipa attivamente alle riunioni del Circolo della nuova sinistra» (Franco Mento). A Milano «“quasi ogni settimana venivo convocato per il rito del giovedì dal questore Allitto Bonanno, che mi trattava con grande cortesia, forse perché mio padre era prefetto in carica ad Arezzo, la città di Fanfani, contro cui facevamo una campagna durissima. Il commissario Allegra preparava il caffè e Allitto mi chiedeva: ‘Allora, sabato cosa succede?’. Fino a quando, il 12 dicembre 1971, arrivammo alla contrapposizione totale. Volevamo manifestare a piazzale Loreto per il secondo anniversario di piazza Fontana. Allitto fu durissimo: ‘Potete fare un comizio a Città Studi. Ma attorno ci metterò tanta di quella polizia che non uscirete neanche con i carri armati’. All’uscita sfilammo praticamente in colonna, fotografati uno a uno. Un disastro”. Molti cominciano a pensare alla clandestinità. […] Quando le Br sequestrano e fotografano con una pistola puntata sul viso e un cartello al collo Idalgo Macchiarini, capo del personale della Sit-Siemens, il comitato milanese di Lotta continua scrive un volantino di approvazione: mandato di cattura per tutti. “Io ero in Germania – raccontava Pietrostefani –, ero stato dai compagni che facevano intervento tra gli operai emigrati. Tornai a Milano, vidi questo comunicato e mi arrabbiai moltissimo: ‘Cos’avete combinato?’. Fu un errore politico e un disastro per l’organizzazione: dovemmo tutti sparire per un po’”. Il resto è storia: il 17 maggio 1972 viene assassinato il commissario Luigi Calabresi» (Cazzullo). «Quando gli ricordai la tremenda campagna di stampa contro Calabresi, Pietrostefani riconobbe che fu “una campagna assurda. In uno Stato di diritto non si può fare una campagna del genere contro un uomo senza una prova. Ma non eravamo i soli a farla”. E accennò, senza far nomi, ai famosi appelli pubblicati nel ’71 dall’Espresso, in cui il meglio dell’intellighenzia di sinistra scrisse contro Calabresi la motivazione di una condanna a morte. “Era naturale che nella logica estremistica di quei tempi si dicesse: Pinelli stava nella stanza di Calabresi, Pinelli è caduto dalla finestra, Calabresi ha buttato giù Pinelli. Calabresi è un assassino. Cominciò così”, mi disse Giorgio. Lotta continua si sciolse nel ’76. “Lo facemmo per non litigare. Lc è stata sempre una storia di amicizia”. […] Giorgio chiuse la parentesi, completò il triennio in tre sessioni, diventò l’architetto Pietrostefani» (Vespa). «Alla fine degli anni Settanta, un’improvvisa metamorfosi: ottiene un posto di lavoro alla Snam Progetti. Nell’83 arriva a Reggio Emilia, ove lo attende l’incarico di addetto al marketing: dopo alcuni mesi diventa direttore commerciale delle Omi-Reggiane, azienda del gruppo Efim-Impianti specializzata nell’impiantistica ferroviaria. Una grossa promozione, che qualcuno malignamente correla alla parentela acquisita con l’ex presidente dell’Efim, Corrado Fiaccavento» (Mento). Il 28 luglio 1988 «lo attendevano a Gibuti, la ex Somalia francese, per visitare un cantiere di lavoro e per stipulare un altro contratto per l’azienda. Invece poco prima […] era stato arrestato» (Mento). «Pietrostefani fu travolto, […] insieme ad Adriano Sofri e Ovidio Bompressi, dalle rivelazioni del pentito Leonardo Marino sull’omicidio del commissario dell’Ufficio politico milanese Luigi Calabresi, […] il primo caso di terrorismo selettivo in Italia. L’inchiesta, condotta dai magistrati Ferdinando Pomarici e Antonio Lombardi, portò a una delle vicende processuali più controverse della storia repubblicana» (Oriana Liso e Massimo Pisa). Seguirono, tra il 1989 e il 2000, ben sette gradi di giudizio e sei pronunciamenti relativi a istanze di revisione del processo, al termine dei quali Marino fu condannato a 11 anni di reclusione per concorso in omicidio (pena estinta per intercorsa prescrizione), Bompressi a 22 anni per concorso materiale in omicidio (pena scontata per lo più agli arresti domiciliari per ragioni di salute, ed estinta nel 2006 in virtù della grazia presidenziale) e Sofri e Pietrostefani a 22 anni per concorso morale in omicidio (pena scontata interamente da Sofri, solo in minima parte da Pietrostefani). Già residente in Francia ai tempi della condanna definitiva del 22 gennaio 1997, Pietrostefani fece allora ritorno in Italia per scontare la pena adducendo un senso di solidarietà nei confronti di Sofri e Bompressi («Io vado dentro perché la mia storia è quella dei miei compagni»), ma, temporaneamente scarcerato insieme ai due sodali il 24 agosto 1999 in seguito all’accoglimento dell’istanza di revisione del processo da parte della Corte d’appello di Venezia, non attese il nuovo pronunciamento, e tra la fine del 1999 e l’inizio del 2000 fuggì alla volta della Francia. Qui, in seguito alla conferma delle precedenti condanne tanto da parte della Corte d’appello di Venezia (24 gennaio 2000) quanto da parte della Corte di cassazione (5 ottobre 2000), trascorse indisturbato la propria latitanza, giovandosi dell’ambigua e controversa «dottrina Mitterrand» (in buona sostanza, il rifiuto opposto alle richieste d’estradizione avanzate nei confronti di quanti in passato avessero compiuto crimini d’ispirazione politica anche violenti, purché non diretti contro la Francia), nonché godendo di una pensione Inps di circa 1.500 euro, fino al 28 aprile 2021, quando, nell’ambito dell’operazione «Ombre rosse», fu arrestato dalle autorità francesi, su richiesta dell’Italia, insieme ad altri sei latitanti di estrema sinistra. «L’arresto dei sette ex estremisti rossi condannati per omicidi e atti di terrorismo in Italia e riparati in Francia è, forse, la vera fine di un grande equivoco determinato da quella che fu chiamata la “dottrina Mitterrand”. […] Probabilmente il caso che farà più discutere, per la densità e la risonanza storica italiana del crimine a cui è legato, è quello di Giorgio Pietrostefani. […] Aveva avuto problemi di salute e un trapianto al fegato. Da anni tutti sapevano dove vivesse, spesso frequentava persino giornalisti, ma nessun governo dall’Italia lo aveva mai chiesto indietro» (Jacopo Iacoboni). Le procedure per l’effettiva estradizione in Italia, tuttavia, si annunciano alquanto complesse, e, per di più, dall’esito nient’affatto scontato. «Non appena i dossier verranno completati, o almeno la giudice li riterrà completi, passerà a valutare le posizioni caso per caso, con il rito tradizionale. Si potrà arrivare fino al ricorso in Cassazione. E, alla fine, toccherà al primo ministro firmare un decreto di estradizione, che però potrà essere a sua volta impugnato per un ricorso amministrativo davanti al Consiglio di Stato. Insomma, una strada ancora molto lunga» (Cristiana Mangani) • «L’arresto a Parigi di Giorgio Pietrostefani […] mette un punto fermo in una storia lunga quasi mezzo secolo, che prese avvio a Pisa il 13 maggio 1972, a margine della manifestazione organizzata da Lotta continua in piazza San Silvestro dopo la morte avvenuta una settimana prima del giovane anarchico Franco Serantini, ucciso dalla polizia durante una carica sul lungarno Gambacorti quando in città si era scatenata una vera guerriglia per impedire il comizio del missino Beppe Niccolai. Secondo la sentenza che poi li condannò, fu in quell’occasione che Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani, i due leader di Lotta continua, ordinarono a Leonardo Marino e Ovidio Bompressi di recarsi a Milano per uccidere il commissario Calabresi. Pentito e reo confesso, Leonardo Marino raccontò poi che, di fronte a Pietrostefani che insisteva per “giustiziare” Calabresi, volle conferma: “Così andai a parlare con Sofri, al termine del comizio per Serantini, per avere la certezza che Adriano fosse d’accordo e non trovarmi di fronte a un colpo di mano di Pietrostefani, sostenitore della linea militarista uscita vincente dal convegno di Lotta continua di un mese prima a Rimini. E Adriano mi disse: ‘Fatela, questa cosa, e speriamo che ci vada bene’”» (Giuseppe Meucci) • Una figlia dalla prima moglie, la sindacalista Fiorella Farinelli (1943), un’altra dalla seconda • Juventino • «In questi anni, le sue dichiarazioni hanno oscillato da proclami improbabili («Pretendo le scuse di questo Paese», «La giustizia che ci ha condannati è stata una giustizia infame») a parziali autocritiche sulla campagna d’odio contro Calabresi («Ero un fanatico che credeva che bisognava fare la rivoluzione»). Ma ha sempre negato di avere dato l’ordine a Leonardo Marino di andare con Ovidio Bompressi ad ammazzare Calabresi» (Luca Fazzo). «A giudicare dalle carte processuali, mi pare probabilissimo che Giorgio Pietrostefani […] sia stato lui l’ideatore politico dell’azione milanese» (Giampiero Mughini, ex membro di primo piano di Lotta continua) • «Del capo, del non gregario, del buon navigatore ha il tono, la disinvoltura, la scioltezza di argomentazioni, la determinazione» (Guido Vergani). «Lo ricordo ai processi, la faccia dura, mai una parola, mai un’emozione. Un oggetto misterioso, sembrava fatto di pietra, non rilasciava dichiarazioni alla stampa, sfuggiva i microfoni e si rifugiava dietro occhiali da sole con la montatura quadrata. Mi provocava molto disagio» (Mario Calabresi, giornalista e scrittore, figlio di Luigi Calabresi) • «La verità storica non esiste» • «Credo che Pietrostefani abbia il dovere morale di raccontare cosa è accaduto. Non si ha il diritto di chiedere la verità sul 12 dicembre 1969 [data della strage di piazza Fontana, da cui tutto ebbe inizio – ndr] se si sceglie di tacere su ciò che è avvenuto il 17 maggio 1972, se non si racconta chi mandò quei due sciagurati di Bompressi e Marino in via Cherubini a uccidere il commissario. Sarebbe ora, ex poliziotti o ex capi di Lotta continua, di dire qualcosa, e ciascuno ha il dovere di prendersi le proprie responsabilità. La verità è tale solo se intera, non se si sceglie solo la parte che è più gradita» (Guido Salvini, il giudice che negli anni Novanta riaprì presso il Tribunale di Milano le indagini sulla strage di piazza Fontana). «Oggi Giorgio […] è malato seriamente. Non lo immagino in una cella, se e quando a ottant’anni tornerà in Italia. La giustizia non è vendetta. Mi piacerebbe però incontrarlo di nuovo per chiedergli se, nella sera della sua, della nostra vita, non crede che il nostro Paese abbia diritto di sapere il tanto non detto sugli anni di piombo. Troppi brigatisti sono stati perdonati senza aprire davvero bocca. Se nessuno parlerà, il capitolo di una nostra piccola, tremenda guerra civile non si chiuderà mai» (Vespa) • «Digli che io ho perdonato, sono in pace e così voglio vivere il resto della mia vita» (Gemma Capra, vedova di Luigi Calabresi, al figlio Mario nel 2019, poco prima che egli avesse il suo primo e unico colloquio con Pietrostefani, del cui contenuto non ha mai parlato).