18 novembre 2021
Tags : Abdel Fattah Al Sisi
Biografia di Abdel Fattah Al Sisi
Abdel Fattah Al Sisi, nato a Il Cairo (Egitto) il 19 novembre 1954 (67 anni). Militare. Politico. Presidente dell’Egitto (dall’8 giugno 2014). Già vice primo ministro egiziano (2013-2014), ministro della Difesa e comandante in capo delle Forze armate (2012-2014) e capo della Direzione dei servizi militari e d’indagine (2010-2012). «Il mio dittatore preferito» (Donald Trump, nel 2019). «La pretesa degli stranieri di imporre all’Egitto la loro visione sui diritti umani rivela un approccio dittatoriale» • «Nato nel 1954 a Gamaliya, il quartiere raccontato da Mahfuz nel cuore della Cairo islamica, era il secondo di otto figli di un mobiliere. Durante la campagna elettorale lo staff di Al Sisi, scarno come lui nelle informazioni, lo ha definito “figlio del popolo”, se non povero. Ma in realtà, ricordano i vicini, la famiglia era ricca, il padre “era il solo ad avere una Mercedes e possedeva varie botteghe” nel bazar Khan El Khalili. Ricchezza cresciuta negli anni. […] In quanto al giovane Abdel Fattah, chi lo conosceva lo descrive “introverso e devoto: non giocava con gli altri, al massimo a scacchi, invece studiava, sollevava pesi, andava a letto presto e a volte si autopuniva. Una volta si rasò i capelli a zero dopo che il padre l’aveva sgridato per una camicia scollata”» (Cecilia Zecchinelli). «Cresciuto in una famiglia molto religiosa, Al Sisi dopo la scuola si recava tutti i giorni a lavorare nella bottega di artigiani di famiglia, situata nel bazar di Khan El Khalili, la mèta turistica più visitata dopo le piramidi. Realizzava arabeschi, e a sentire il cugino […] Ali Hamama […] “era anche molto bravo”» (Leone Grotti). «Nessuna ragazza, pare, fino al fidanzamento a 21 anni con una cugina diventata poi sua moglie (velata) e madre dei suoi quattro figli. Anche la carriera di Al Sisi, che non ha mai combattuto pur essendo chiamato “il leone”, pare senza sorprese» (Zecchinelli). «Il giovane Sisi si diploma all’Accademia militare nel 1977, un anno prima della firma degli accordi di Camp David, che sanciranno la pace con Israele e il passaggio dell’Egitto dall’orbita filo-sovietica a quella americana» (Alessandro Accorsi). «Dopo gli accordi israelo-palestinesi di Camp David, diventa uno degli uomini chiave nel combattere il terrorismo jihadista in Egitto e nel tenere i rapporti con l’intelligence statunitense. Oltre all’esperienza maturata nell’ambiente militare nazionale, Al Sisi segue anche due corsi di specializzazione in Gran Bretagna (1992) e negli Stati Uniti (2006). Tornato dalla Pennsylvania, diventa prima responsabile del Comando Nord basato ad Alessandria (2008), poi direttore dell’intelligence militare. Un ruolo fondamentale, poiché è da lì che transitano le informazioni sensibili» (Giovanni Piazzese). «Il periodo passato alla guida dell’intelligence militare […] ha lasciato in eredità a Sisi la capacità di captare il cambiamento degli orientamenti politici e uno scaltro opportunismo» (Accorsi). «Secondo vari testimoni Al Sisi già dal 2010 aveva convinto molti generali ad abbandonare Mubarak, in procinto di passare il potere al figlio Gamal. E, quando esplose la rivoluzione, l’esercito si schierò con la piazza» (Zecchinelli). Nel 2011, infatti, tra fine gennaio e inizio febbraio «la “piazza” […] rovesciò il potere consolidato in oltre mezzo secolo, da Nasser a Mubarak, liberando il pensiero alternativo. In quella “agorà” che chiedeva libertà e diritti non c’erano soltanto i seguaci della storica corrente laica e progressista dell’Egitto, di una sinistra virtuosa, l’anima della grande rivoluzione di piazza Tahrir: sotto traccia, ma neppure troppo, lavorava anche il radicalismo dei Fratelli musulmani, che, infatti, l’anno successivo si aggiudicarono le prime elezioni “libere” post-Mubarak» (Pierfrancesco Curzi). Nell’agosto 2012, quando l’allora presidente egiziano Mohamed Morsi, espressione dei Fratelli musulmani, aveva nominato un ancora sconosciuto Al Sisi «a capo del Consiglio delle forze armate (Scaf) dopo aver rimosso l’anziano Tantawi, il generale nato al Cairo nel 1954 era stato visto all’inizio come troppo vicino ai Fratelli, e per questo da loro insediato al vertice militare. Non solo fervente musulmano, ma con una moglie con velo integrale, scrivevano i media egiziani. […] Poco era piaciuto poi che Al Sisi avesse difeso nell’aprile 2012 gli infami “test di verginità” imposti dai soldati che avevano arrestato (e picchiato) un gruppo di dimostranti donne a Tahrir. “Lo hanno fatto per proteggere le ragazze da stupri e i militari da denunce di stupro”, disse allora, sollevando un giusto putiferio. Qualche mese dopo, però, si impegnò a vietarli. Ma, soprattutto, una volta a capo dello Scaf, Al Sisi è riuscito a risollevare il morale dell’esercito, la sua efficienza e la sua immagine presso la gente» (Zecchinelli). «Nei primi mesi di presidenza Morsi, Sisi sostenne a più riprese che le forze armate dovevano abituarsi alla coesistenza con un governo civile. Ma, […] pressato da ampie fazioni delle forze armate, industriali e uomini del vecchio regime, solo pochi mesi dopo fu probabilmente lui a dare l’ordine all’intelligence militare di negoziare un accordo con Tamarrod, il movimento popolare che stava organizzando le proteste del 30 giugno contro Morsi. Dopo aver chiesto al presidente di dimettersi, fu sempre lui a deporlo con un discorso televisivo il 3 luglio e a lanciare, il 26 luglio, la “guerra al terrorismo” che fece precipitare le violenze nel Paese» (Accorsi). «Nelle manifestazioni anti-Morsi che hanno avuto luogo dal 29 giugno al 3 luglio 2013, polizia, esercito e servizi segreti sono apparsi solidali con i giovani della campagna di raccolta firme Tamarrod (ribellione). Molti tra questi attivisti urlavano per strada “Sisi, Sisi, enta raisi” (“Sisi, Sisi, tu sei il mio presidente”). E così la destituzione dell’ex presidente islamista, con l’arresto della leadership dei Fratelli musulmani, ha apparentemente riportato l’ordine in strada» (Giuseppe Acconcia). «Nasceva […] il regime della “restaurazione”, stavolta in grado di evitare gli errori commessi da Hosni Mubarak. Il vero spartiacque della strategia del regime sono i fatti sanguinosi legati alle manifestazioni di protesta organizzate dai Fratelli musulmani al Cairo a metà agosto del 2013. Il 14, in particolare, i militari e la polizia intervennero nelle piazze Rabaa e Nahda provocando un bagno di sangue. Morirono circa un migliaio di persone e altrettante finirono in carcere: tra loro l’ex presidente e leader della Fratellanza, Mohamed Morsi, e i vertici del movimento politico e religioso radicale» (Curzi). Dapprima esitante all’idea di assumersi la piena titolarità dell’esecutivo, Al Sisi risolse poi di ritirarsi ufficialmente dall’esercito (26 marzo 2014) per candidarsi alle elezioni presidenziali del 26-28 maggio 2014, conquistando quasi il 97% dei voti: analoga percentuale di consensi ottenne alle successive elezioni – giudicate farsesche dagli osservatori internazionali – del 26-28 marzo 2018, in seguito alle quali varò una riforma costituzionale che, tra l’altro, estendeva da quattro a sei anni la durata del mandato presidenziale, a cominciare da quello già in corso. Anch’essa fu poi puntualmente approvata a larghissima maggioranza (quasi l’89% dei votanti), al referendum del 20-22 aprile 2019. «Il referendum è l’ultimo tassello del mosaico dello Stato pretoriano egiziano con a capo Al Sisi. Secondo il riformato articolo 200, l’esercito è chiamato a proteggere la democrazia e la stabilità del Paese, confermandone il ruolo di garante della tenuta al potere del presidente. Ne esce così rafforzata l’alleanza tra esecutivo e braccio militare, a discapito di un potere giudiziario svuotato della sua autorità. Quanto al reintrodotto Senato, quest’ultimo finirà per costituire un organo legislativo da riempire con altre pedine fedeli al presidente. Il risultato di questo processo è un generalissimo che si avvia verso la presidenza ad infinitum, un’opposizione imbavagliata e una cittadinanza disillusa che qualsiasi cambiamento potrà mai venire dalle urne» (Alessandro Balduzzi). «Dieci anni dopo la rivolta di piazza Tahrir, sette anni dopo il colpo di Stato con cui i militari si ripresero il potere, l’Egitto ha finito di girare su stesso. È stata una lunga rotazione, che lo ha riportato a essere quello che era prima del gennaio 2011. Una dittatura militare in cui Abdel Fattah Al Sisi ha sostituito Hosni Mubarak. Un regime in cui una classe, i militari, si è rimessa al centro del potere. Nella politica, nella sicurezza ma anche nell’economia. Con una grande differenza: Mubarak e il suo regime tutto sommato avevano consolidato la presa sul Paese adoperando la politica, sostenendola solo dopo con l’azione repressiva violenta degli apparati. Con Sisi, al contrario, è stata la violenza l’origine di tutto. Ha sostituito la politica per permettere ai militari di riprendere il controllo totale del Paese. E anzi per allargare la loro sfera di potere anche a settori che Mubarak aveva avuto la saggezza di lasciare disponibili, a piccole dosi, a partiti politici e altri segmenti della vita civile. Perfino nel periodo di Mohamed Morsi […] alcuni spazi di democrazia erano stati preservati. La giornata del 14 agosto 2013, quella dei massacri che i militari misero in atto contro i presìdi pubblici della Fratellanza, rimarrà nella storia dell’Egitto. Da quei corpi degli estremisti islamici uccisi in piazza Rabaa e Nahda, Sisi è ripartito per consolidare rapidamente il sistema. Innanzitutto, con un attacco ai partiti politici: mette infatti al bando i Fratelli musulmani e gli altri gruppi d’opposizione più rilevanti (con Mubarak invece l’opposizione sopravviveva: non vinceva mai le elezioni, ma non era ridotta a zero). Poi con gli arresti di singoli uomini politici, a partire dalla dirigenza della Fratellanza musulmana. Il presidente Morsi è restato in carcere fino alla morte. Ancora: vietando ogni attività politica, ogni manifestazione pubblica, criminalizzando ogni forma di dissenso contro il governo. Le carceri sono state riempite di migliaia di prigionieri politici, […] in balia di un sistema giudiziario che segue le direttive dei militari» (Vincenzo Nigro). «L’emblema di una giustizia assurda e mirata sono […] Patrick Zaki e Ahmed Samir Santawy: 30enni, studenti universitari a Bologna e Vienna, arrestati al loro rientro in patria per una vacanza a causa di alcuni post su Facebook dai rispettivi Paesi di adozione» (Curzi). «In un campo Sisi ha dimostrato di sapersi muovere con incredibile capacità. Anche con opportunismo, ma con intuito: quello delle relazioni internazionali, del suo posizionamento globale. […] Giocando di sponda fra Trump e Putin, approfittando della necessità dei “fratelli” sauditi ed emiratini di avere a disposizione se non altro la forza demografica e i numeri militari dell’Egitto (soprattutto nel confronto con Turchia e Iran), Sisi ha avuto ossigeno per consolidare la sua presidenza. E “ossigeno” significa dollari, prestiti economici. Dal 2014 il debito estero egiziano è triplicato, da 110 miliardi di dollari a circa 321. Quasi il 40% del budget egiziano è destinato al pagamento del debito estero, ma Paesi come le monarchie arabe, la Cina, assieme alla Banca mondiale e al Fondo monetario in cambio di riforme economiche ancora esili, continuano a fare credito all’Egitto. È una conferma del fatto che, in un Mediterraneo e in un Medio Oriente in continua, pericolosa ebollizione, l’Egitto è un partner di cui nessuno può fare a meno (a parte i turchi). […] E non lo trascurano i Paesi europei, come Francia e Italia, che vendono armi, discutono di terrorismo e migrazioni» (Nigro). Il 9 dicembre 2020 Al Sisi fu insignito in gran segreto della massima onorificenza francese, venendo nominato dal presidente Macron Cavaliere di gran croce dell’Ordine della Legion d’onore: ciò suscitò lo sdegno e le proteste delle organizzazioni internazionali in difesa dei diritti umani e di numerose personalità pubbliche, soprattutto in Italia, Paese le cui autorità giudiziarie non hanno di fatto mai ottenuto alcuna collaborazione dalle controparti egiziane nell’ambito delle indagini sull’assassinio, avvenuto al Cairo tra il 25 gennaio e il 3 febbraio 2016, del dottorando italiano dell’Università di Cambridge Giulio Regeni (1988-2016), secondo gli inquirenti rapito e torturato a morte da quattro ufficiali dei servizi segreti interni egiziani. «L’espressione “diritti umani” non era apparsa mai così tanto nell’agenda di governo del Cairo. […] Il 15 settembre […] lo stesso Sisi, […] in una telefonata alla tv di Stato, ha annunciato che […] verrà inaugurata la più grande prigione del Paese. Un carcere modello, garantisce il presidente, in pieno stile americano. “Il detenuto sconterà la sua pena in modo umano: godrà del movimento, della sussistenza e dell’assistenza sanitaria”, ha assicurato, prima di sottolineare, nel corso dello stesso intervento, che “in Egitto non ci sono detenuti politici né violazioni dei diritti umani”. Eppure negli otto anni della sua presidenza sono già state costruite 27 carceri, un terzo del totale del Paese. […] Il 14 settembre il portavoce del Dipartimento di Stato Usa ha annunciato che l’amministrazione Biden tratterrà 130 milioni di dollari di aiuti militari all’Egitto fino a quando Il Cairo non adotterà misure specifiche proprio sul fronte dei diritti umani. […] Ma, a dispetto degli annunci, il recente provvedimento dell’amministrazione americana, anche se in rottura con il passato, è blando. Diverse organizzazioni per i diritti umani hanno definito “insufficiente” la somma trattenuta, che rappresenta meno della metà dei 300 milioni di aiuti previsti. […] D’altronde, il posizionamento strategico e militare egiziano per Washington nell’area mediterranea e mediorientale resta molto importante. Lo dimostra il ruolo di mediazione del Cairo tra Israele e Hamas durante l’offensiva israeliana nella striscia di Gaza lo scorso maggio. Ruolo che ha permesso a Sisi di sciogliere molte delle iniziali freddezze del nuovo presidente Biden. Sul piano delle relazioni internazionali l’Egitto ha pianificato subito una strategia per rendersi credibile alla Casa Bianca e continua a farlo: l’ultima mossa in ordine di tempo è la visita del premier israeliano Naftali Bennett a Sharm El Sheikh, la prima di un leader di governo israeliano dopo dieci anni. E negli ultimi mesi è come se il Cairo stesse esibendo lo stesso approccio rispetto ai diritti umani e al sistema di garanzie del Paese. Il mix è molto simile: annunci dalla retorica imponente e poche vere concessioni nelle vicende giudiziarie che coinvolgono esponenti della società civile» (Laura Cappon). Da ultimo, «l’Egitto è stato nominato Stato ospitante, nel 2022, della Conferenza annuale delle Nazioni unite sul cambiamento climatico (Cop27). […] Il presidente Al Sisi, dunque, è pronto ad accrescere il suo peso e il suo prestigio sul piano internazionale. […] Naturalmente, alla faccia dei diritti umani» (Riccardo Noury) • «Al Sisi è passato alla storia per aver spodestato il primo presidente eletto dei Fratelli musulmani, Mohamed Morsi; per aver dichiarato guerra al terrorismo di Al Qaida, dell’Is e di Hamas; per aver assistito, primo presidente egiziano della storia, a una messa cristiana a Natale; per aver aperto alle confessioni islamiche eterodosse, come i sufi; per i rapporti positivi con Israele e il mondo ebraico (gli islamisti danno a Sisi del “cripto-giudeo” e Gerusalemme si è schierata contro tutte le sanzioni proposte contro Sisi dopo il golpe che ha portato il generale al potere). […] Eppure, Al Sisi è anche un presidente e un generale profondamente islamico. Musulmano praticante che ha imparato a memoria il Corano, Sisi ha una moglie che porta l’hijab (il velo) e una figlia che addirittura veste il niqab completo, inizia ogni giornata con la preghiera del mattino salat al fajr e in ogni suo discorso cita un hadith del profeta Maometto. Addirittura si dice che, a metà degli anni Ottanta, Al Sisi avesse meditato di ritirarsi dalla vita militare, di farsi crescere la barba e dedicarsi alla dawa, la predicazione. E secondo Dina Ezzat, giornalista di Al Ahram, Sisi ancora oggi digiuna due volte alla settimana. Ne parliamo con Sherifa Zuhur, l’arabista americana che ha insegnato ad Al Sisi nel 2006, quando il generale egiziano trascorse un anno allo Us Army War College in Pennsylvania e lì scrisse una tesi di dottorato su democrazia e mondo islamico, ritenendoli compatibili a patto che la prima non volesse imporsi in Medio Oriente secondo canoni occidentalizzanti. […] “Sisi è un musulmano tradizionale devoto per il quale l’Egitto, che non è una società laica, dovrebbe essere disciplinata dalla tradizione giuridica civile. […] Sisi si oppone all’estremismo islamico non solo perché contrasta l’Occidente, ma perché ha diviso i musulmani e fatto un gran danno a loro e alla loro capacità di reinterpretare la fede in allineamento con i princìpi umanitari moderni. E, anziché aiutare lo sviluppo della regione, ha portato alla sua disgregazione in conflitto”» (Giulio Meotti) • «Secondo Robert Springborg, l’autoritarismo di Al Sisi richiama sistemi politici che si rifanno alla tradizione mediorientale, ma contestualmente prende in prestito canoni e dettami tipici di tradizioni come quelle latino-americane. Da qui l’idea che il modello egiziano si ispiri ai concetti di “autoritarismo delegativo” e/o caudillismo in virtù del ruolo e della funzione del presidente, intesa come figura superiore e autonoma al processo decisionale, che si percepisce come “nazione fatta persona, principale custode e decisore degli interessi del Paese”» (Giuseppe Dentice) • «Non mi sento di condividere questo onore con un capo di Stato che si è fatto oggettivamente complice di criminali» (dalla lettera all’ambasciatore francese in Italia con cui Corrado Augias restituì le insegne della Legion d’onore dopo aver saputo che erano state concesse anche ad Al Sisi).