19 novembre 2021
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Biografia di Enrico Brizzi
Enrico Brizzi, nato a Bologna il 20 novembre 1974 (47 anni). Scrittore. «Jack Frusciante è finito nelle antologie scolastiche. “Se me lo avessero detto allora, mi sarebbe sembrato un abominio. Per me la scrittura era come suonare nelle cantine, stampare fanzine, dipingere i muri con bombolette spray. Era formazione di sé, ma anche di un ‘noi’. Ribellione. Quel romanzo nacque sottraendo tempo ai compiti: l’idea che sarebbe entrato in un museo mi avrebbe lasciato sbigottito”. E oggi la scrittura cos’è? “Mettersi in discussione, come insegnava Tondelli. Un artigianato che ho affinato con disciplina quotidiana, mettendolo a disposizione di cose diverse, cercando di non scrivere mai lo stesso libro”» (Fulvio Paloscia) • Figlio di uno storico e di un’insegnante. «Sono bolognese, ma la mia famiglia è originaria dell’Appennino tosco-emiliano, più precisamente dell’ultimo paese emiliano al confine con la Toscana» (a Mario Manca). «Sono cresciuto in una famiglia più estesa di quella nucleare: mio padre e i suoi sette fratelli, mia madre e i suoi sei, una tribù di cugine e cugini che aveva come epicentro la casa della nonna materna, che quando ero piccolo era rimasta vedova da poco. Lei era la classica signora emiliana di una certa età che incarnava il ruolo di matriarca. Si pranzava o si cenava a casa sua in dieci-dodici a tavola con gli zii che andavano e venivano da diverse parti del mondo, perché facevano mestieri particolari: dal commissario di bordo sui transatlantici all’ufficiale di Marina militare, fino ai medici in Etiopia. Mio padre era più abitudinario: ogni lunedì si alzava, usciva di casa e andava in aeroporto per raggiungere la Sardegna, dove lavorava» (a Giuseppe Fantasia). «Non ho cominciato presto a scrivere. Ho iniziato molto presto a leggere. I miei genitori mi hanno avvicinato alla letteratura con intelligenza, senza trasformarla in un peso. Ho esordito come caporedattore del giornalino dei Lupetti» (a Piero Negri). «Non ho mai immaginato di fare il romanziere: sognavo di scrivere sui giornali, per questo da ragazzo salivo sul treno e andavo a Milano. Lì mi sentivo di essere al centro del mondo, ma mi lasciavo anche prendere dalla furia di non essere mai in nessun posto» (a Stefania Saltalamacchia). «La passione per la musica è nata presto, è stato il primo modo in cui ho pensato di potermi esprimere. Quando avevo 15 anni mi sembrava che con la chitarra si potesse uscire dal consueto e soporifero menù di tutti i giorni. Poi è arrivata la scrittura» (a Ernesto Assante). «Brizzi cominciò il suo cammino di avvicinamento alla narrativa da “sbarbo” 17enne dedito al punk rock quale era all’epoca: “Dopo aver visto Blade Runner al cinema, mandai a una serie di editori un racconto intitolato Hard Boiled, copiato di sana pianta dal film di Ridley Scott. Un giorno mia madre mi disse che aveva telefonato a casa un editore che mi aspettava due ore dopo sotto le Due Torri. Ci andai in bicicletta pensando a uno scherzo dei miei amici, e invece ci trovai un tizio sui 40 anni coi capelli alla Beatles e gli occhialetti: era Massimo Canalini delle edizioni Transeuropa. Mi chiese perché avessi copiato Blade Runner e mi invitò a raccontare storie legate alla mia vita reale, rifacendosi ai consigli di Tondelli e alle sue antologie di giovani autori under-25» (Franco Giubilei). «Gli risposi che non lo trovavo interessante, parlare di me, raccontare che ero un liceale che aveva una band sgangherata in cui suonava il basso, e molto male. No, non lo ritenevo interessante, ma lui mi disse di scrivere proprio questo. In quel periodo, poi, stavo vivendo una storia con una ragazza che ha fornito l’ispirazione molto diretta per Alex e Adelaide», i due protagonisti di Jack Frusciante è uscito dal gruppo (Transeuropa, 1994). «Tutto è accaduto nella primavera. In estate Aidi, la protagonista femminile, è partita per l’America: subito dopo ho cominciato a scrivere il romanzo. Lo spunto è autobiografico: sono veri i personaggi, veri i luoghi, realmente accaduti, più o meno, gli eventi. È stato un caso, abbastanza imprevisto: fino ad allora non avevo mai guardato così bene dentro di me. Certamente, non è stato facile: ho impiegato cinque mesi per la prima stesura, e poi l’ho riscritto da capo altre due volte. Sentivo una necessità quasi fisica di raccontare questa storia, ho tenuto duro, e alla fine del lavoro mi sono sentito davvero sollevato». «Jack Frusciante prese vita fra l’ultimo anno di liceo classico e il primo di università, Scienze della comunicazione, dove Brizzi non dimenticherà mai le parole di Umberto Eco: “Ci disse che con quella laurea non avremmo mai trovato un lavoro, e che ci saremmo dovuti inventare un mestiere”». «Bologna è il paese delle meraviglie, […] in cui si può dare un esame con Umberto Eco, “il maestro”, presentando una tesina sull’universo semiologico degli 883. […] “Diedi conto dello sbilanciatissimo, quasi imbarazzante, rapporto fra i due componenti della band, Max Pezzali e quel Mauro Repetto perennemente condannato a ballare sullo sfondo”. Trenta e lode» (Edmondo Berselli). «Hanno aiutato Brizzi nella scrittura la lettura programmatica di De Carlo, Tondelli e Salinger, e l’amore sfrenato per la musica rock e punk. Ne è una spia lo stesso titolo del romanzo del debutto, dedicato a John Frusciante, il chitarrista dei Red Hot Chili Peppers, che uscì dal gruppo prima che la “macchina” lo travolgesse come Kurt Cobain» (Stefano Casi). «Ma perché Jack Frusciante e non John? Tutti si chiedevano se fosse fatto apposta o fosse un errore… “No, figuriamoci, io ero un nerd assoluto per la musica: l’ho cambiato perché l’editore era terrorizzato dall’idea che i Red Hot Chili Peppers gli facessero causa”» (Luca Valtorta). «Quando il libro è uscito dalla tipografia, sono andato in Vespa ad Ancona, alla casa editrice, per prendere le prime copie. La prima in assoluto è stata per la vera Aidi: mi ha detto che si è riconosciuta nel personaggio. Quando lei è tornata dall’America la nostra storia è ricominciata, ma è durata soltanto dieci giorni: ormai eravamo troppo diversi». «Jack Frusciante uscì in duecento copie, cento a Bologna e cento ad Ancona, ed ebbe un successo che nessuno avrebbe potuto prevedere: in quell’estate fecero quattordici edizioni! Questo anche grazie al fatto che l’Espresso dopo solo due settimane scrisse un articolo sul libro, mentre Umberto Eco ne parlò ne “La bustina di Minerva”». «Il mio è stato un successo indipendente che è nato dall’underground e che nel giro di pochi mesi mi ha proiettato al Maurizio Costanzo Show, sui giornali importanti recensito da critici di prim’ordine, […] sugli Champs Elysées a brindare per l’edizione francese come alla fiera del libro in Giappone: un’ubriacatura clamorosa”. Come si torna sobri? “La differenza, la fa sempre la mattina dopo, quando ti risvegli (ride, ndr). In quei casi, due sono le strade: o fare la celebrità o lo scrittore. Se scegli di fare la prima, devi accettare il contratto di un Jack Frusciante 2 in cui lei torna dall’America; se vuoi fare il secondo, devi metterti il cuore in pace ed essere consapevole che ci saranno dei momenti di visibilità come dei momenti di oscurità, ma che comunque hai la possibilità di raccontare le cose che vuoi. Ho scelto di fare questo e non l’opinionista in tv o il tuttologo, e mi va bene così”» (Fantasia). «“Cominciarono anni di rave party, di spedizioni bellicose nei club e di botte allo stadio con gli ultras del Bologna. Giravo con la testa rasata e non andavo mai a letto prima dell’alba. Mi era diventata insopportabile l’università, dove fatalmente ero il giovane autore. Ci sono voluti anni di baldoria, ma anche di conoscenze di una vita diversa: era interessante conoscere Vasco e frequentare il backstage dei suoi concerti. Era un crinale esposto da cui puoi anche cadere, ma era anche molto fertile per la scrittura”. Ne esce il romanzo Bastogne, l’esatto opposto dello spirito di Jack Frusciante, con droga a volontà, ragazze viste come esseri inferiori e in copertina il profilo minaccioso del personaggio più feroce di Andrea Pazienza, Zanardi» (Giubilei). «“Il secondo album è sempre il più difficile, ma è il momento giusto per fare vedere che tu non vuoi essere quello che racconta un solo determinato libro di storie. Tondelli ha scritto Altri libertini che è punk di provincia, identità personali, sessuali e politiche molto contraddittorie, poi ha scritto un libro sulla naja, uno sulla capitale delle vacanze italiane negli anni dello yuppismo. Io ammiro quel genere di artisti lì”. Guardando i libri che hai scritto, è un approccio evidente. “Ho fatto delle cose per cui gli editori mi avrebbero voluto prendere giustamente a calci nel sedere, ma non puoi abdicare alla tua natura. Uno si sveglia e sta al computer fino a sera solo se sta facendo qualcosa che ama. […] Quando sono entrato in Mondadori sentivo la pressione di essere nella più grande casa editrice italiana, e mi sono trovato a scrivere una storia che non mi piaceva e che non andava bene. Prima che fosse troppo tardi ho deciso di staccarmi, per provare ad azzerare la situazione e ripensarla. Sono andato a fare una camminata: dal Tirreno all’Adriatico, tre settimane con mio fratello, con cui non passavo così tanto tempo da quando eravamo piccoli. Ho passato giornate a fare fatica, a meravigliarmi, a ridere come un matto e a rendermi conto che in città ci sei, ma solo fino a un certo punto, perché hai sempre mille impegni. Dopo che hai capito la direzione, invece, camminare diventa automatico, e la testa è completamente libera di spaziare. I viaggi a piedi sono il momento in cui le persone riescono a prendere decisioni che altrimenti non prenderebbero mai. […] Io avevo a casa una storia completa per due terzi, ma l’esperienza di quel viaggio è stata talmente più vera e più forte che quando sono arrivato a casa ho buttato via il libro che stavo scrivendo e ho scritto la storia di quel viaggio, che è diventata Nessuno lo saprà. Mi piaceva camminare, ma non avevo mai pensato che potesse diventare un oggetto di narrazione”» (Marco Villa). «Ha scritto molto: romanzi, guide sul camminare, narrativa per ragazzi, disseminando qua e là tracce del primo, micidiale alter ego e dell’indimenticabile gioventù bolognese anni 90. Ma è leggendo il nuovo romanzo che ciascuno si dirà: eccolo, Alex alias Jack Frusciante, come è diventato da grande. Qui si chiama Luca Fanti, da Bologna ovviamente. Il fratello Oliver è campione di ciclismo, e lui di mestiere fa il suo procuratore. Ha un passato ruggente da pubblicitario, si è trasferito a Milano nei primi Duemila e continua a viverci con la moglie e i due figli. A sconvolgergli la vita arrivano un divorzio feroce, uno stop sul lavoro e il tracollo economico, dal quale risorgerà a modo suo, in maniera anarchica e non politicamente corretta. […] Quanto somiglia il protagonista di La primavera perfetta a Jack Frusciante? “Mi sono divertito a sperimentare generi diversi: con La primavera perfetta volevo tornare ai fondamentali. Cercavo una storia che avesse a che fare con ciò che aveva dettato tempo e ispirazione al mio primo romanzo: l’amore, l’amicizia, il terrore di finire male e la forza che serve per risollevarsi. In questo Luca è vicino all’Alex di Jack Frusciante”» (Lara Crinò). «La definizione “romanzo della maturità” le piace? “Un libro può essere raccontato in tre parole, e queste mi sembrano buone”» (Saltalamacchia). «Come ha fatto uno come lei che è sempre in viaggio durante questo anno di pandemia e di lockdown? “Prima del Covid, stavo facendo un viaggio in bicicletta in quattro tappe da mille chilometri l’una per l’Europa lungo il vecchio limes dell’impero Romano, la linea tra Reno e Danubio. Dall’Olanda a Basilea, da lì a Vienna e infine Belgrado. Sono dovuto tornare indietro. […] Dal 1994 all’anno scorso non ho mai dormito programmaticamente per più di una settimana in uno stesso posto. […] Oggi ho casa a Rimini, una casa di famiglia ad Asiago e quella della mia compagna, che vive sul lago di Como. Nel triangolo tra questi luoghi ci sono Bologna e Milano nel mezzo come luoghi imprescindibili, perché nella prima ci sono tre mie figlie, e nella seconda un’altra. Insomma, un giro continuo”. Cosa o chi l’ha salvata? “L’essere innamorato della mia compagna. Ci siamo conosciuti un anno prima del Covid. Sono stato chiuso in casa con una persona con cui sto molto bene. Da solo sarebbe stato molto, ma molto più duro. Non c’è dubbio”» (Fantasia) • Tra i titoli della sua ampia e variegata produzione – nessuno dei quali peraltro eguagliò il successo dell’esordio, per lo più stimato tra uno e due milioni di copie vendute –, i romanzi Il pellegrino dalle braccia d’inchiostro (Mondadori, 2007), L’inattesa piega degli eventi (Baldini Castoldi Dalai, 2008) e Gli Psicoatleti (Dalai, 2011), i libri di viaggio Il sogno del drago. Dodici settimane sul Cammino di Santiago da Torino a Finisterre (Ponte alle Grazie, 2017) e L’estate del Gigante. Viaggio a piedi intorno al Monte Bianco (Ponte alle Grazie, 2020) e i testi tra l’autobiografico, il saggistico e l’umoristico La vita quotidiana a Bologna ai tempi di Vasco (Laterza, 2008) e La vita quotidiana in Italia ai tempi del Silvio (Laterza, 2010) • Tre figlie dall’ex moglie – da cui ebbe una separazione difficile, sfociata anche in una causa giudiziaria intentatagli dalla donna per via di alcuni assegni di mantenimento non corrisposti, poi risoltasi con una mediazione –, una da una relazione successiva • «Sono un eterosessuale che è a favore di tutte le leggi che tutelano le minoranze, etniche, sessuali e quant’altro» • «Non ha mai pensato di fare musica? “No. Mi gratifica di più fare così. Sarebbe un atto di vanità: non so cantare, e di suonare ho smesso molto tempo fa. Invece mi piacerebbe […] scrivere testi anche per altri, oltre al rapporto con i Frida X, per i quali ho scritto testi. Penso che la regola migliore sia: canti chi sa cantare e scriva chi sa scrivere”» (Assante) • «Calcio, ciclismo, camminate: la tua letteratura ruota intorno a questi tre temi. “È vero, da sempre. Forse inconsapevolmente già da Jack Frusciante: c’è la bicicletta, c’è la Danimarca che vince gli Europei, ci sono le camminate. Sono temi che mutano nel tempo, ma che hanno tutti un grande concetto alla base: l’eroismo, la voglia di superarsi. Se vogliamo, sono epici”. […] Che rapporto hai con il calcio oggi? “È qualcosa che non si misura più con la militanza da tifoso. Ho passato dieci anni da abbonato in curva, con quello che significava essere in quel posto, a Bologna, tra la metà degli anni Novanta e la metà dei Duemila. Quando poi, nel giro di un anno, mi sono trovato prima padre di una bambina e subito dopo padre di tre perché sono arrivate due gemelle, i miei week-end e in generale la mia organizzazione del tempo è cambiata”. […] Cosa ti piace della curva? “Sai, è un codice. In curva ci sono l’operaio e il notaio. La curva è un ambiente democratico, è il posto dove il tornitore e l’avvocato contano uguale, perché non si è giudicati dal punto di vista del censo, ma da quello della lealtà”» (Cristiano Carriero) • «Il mio viaggio di maturità è stato andare a Vienna in bici con gli amici. Il ciclismo mi affascina perché è uno dei grandi sport popolari italiani, con il calcio, in cui sopravvive l’epica della fatica». Nel 2014 curò per Mondadori l’autobiografia di Vincenzo Nibali (Di furore e lealtà. La mia vita raccontata a Enrico Brizzi) • «Quando ha scoperto il piacere di viaggiare a piedi? “A diciotto anni, quando con un gruppo di compagni di classe decidemmo di festeggiare la maturità andando in giro in tenda sull’Appennino. Solo che, da incoscienti, partimmo soltanto con pantaloni corti e maglietta. Ricordo ancora una bufera ad alta quota, il freddo pungente di quella notte. Ma sbagliando si impara”. […] Ha mai calcolato quanti chilometri ha fatto nella sua vita? “No, sarebbe impossibile. Diciamo che ogni anno percorro almeno tremila chilometri a piedi. Lo faccio da più di vent’anni: fate voi…”» (Lucio Luca). «“Camminare e scrivere si assomigliano tanto”. Perché? “Innanzitutto sono complementari. La stagione dei cammini è la primavera, e la scrittura è perfetta in autunno e in inverno. Poi, quando sei in viaggio, accade la stessa cosa di quando scrivi: ti ritrovi davanti a dei bivi, e devi decidere da solo da che parte andare”» (Eleonora Barbieri) • Non appena ha finito di scrivere un libro, si mette a piangere. «I personaggi sono come figli, che vedi partire per un lungo viaggio» • Suo grande estimatore è Camillo Langone, che l’ha definito «maestro di lingua e di vita i cui libri dovrebbero essere adottati nelle scuole», nonché «toccante esempio di conservatorismo quintessenziale, tra Burke e Scruton, Miłosz e Ferretti» • «Sono diventato rosso in faccia perché un critico de La Stampa ha scritto che il finale di Una primavera perfetta (finale in cui, tanto per cambiare, si corre una Milano-Sanremo) sarebbe piaciuto parecchio a gente come Brera o Gianni Mura. Per poco scoppiavo a piangere» (a Simone Sacco) • «Che rapporto ha, quasi 30 anni dopo, con Jack e tutto quello che è stato? “Vado molto d’accordo. All’inizio è più difficile, quando le persone ti chiedono soprattutto di un libro che è dietro le spalle, piuttosto che dell’ultimo. A distanza di tanti anni, non mi interessa quello che chiedono gli altri. A me interessa aver vissuto l’avventura di Jack Frusciante: i pomeriggi trascorsi a leggere, la meraviglia di entrare in tipografia e ricevere lo scatolone col tuo libro sono ricordi a cui penso con piacere, come quando ripensi a quando eri ragazzo. Se sei stato felice. È stato l’inizio di un’avventura. Mi svegliavo alle 5 e 30 per scrivere prima di andare a scuola. Se oggi ci fosse quel 17enne del ’92? Gli direi che la fortuna bisogna meritarsela ed essere svegli. E quindi mi dico: svelto con quel caffè, alzati e mettiti a lavorare. Hai la fortuna di fare quello che avresti fatto anche gratis”» (Saltalamacchia).