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 2021  dicembre 23 Giovedì calendario

Ritratto di Robert Byron


Negli anni Trenta del ’900, quando i «pellegrini politici», variopinta confraternita di intellettuali occidentali e borghesi, andavano in Russia per «vedere i bolscevichi», il trentenne Robert Byron (1905-41) decise di fare l’esatto contrario, ovvero vedere il Paese e non la sua ideologica santificazione. Ce l’aveva, Byron, soprattutto con i suoi connazionali abbagliati dall’idea «della pianificazione sociale ed economica» che nel suo farsi inglobava «il culmine della politica costruttiva» e insieme «il paradiso della GIOVENTÙ». Li definiva, senza mezzi termini, «bastardi strapagati, miserabili ipocriti pronti a correre dietro all’idea più balorda» e ironicamente si augurava che alla fine il comunismo di Mosca si insediasse a Londra e ne facesse piazza pulita così come aveva fatto con gli intellettuali di casa propria Era irascibile e rissoso, Byron, ma con cognizione di causa.
Il viaggio in Russia da lui compiuto era inserito in un progetto che ne prevedeva un secondo in Tibet, e il perché era abbastanza semplice: tanto nella prima l’influenza spirituale della Rivoluzione industriale aveva raggiunto «la sua sinistra apoteosi», tanto il secondo era «l’unico luogo sulla faccia della terra» dove quell’influenza rimaneva sconosciuta. Erano, insomma, gli estremi opposti «della diversità politica, sociale e culturale» e lo erano anche fisicamente: «La Russia, incolore, è il Paese meno elevato del mondo; il Tibet il più alto e il più colorato. Questa conferma è più che una coincidenza. È una spiegazione». Corollario a tutto questo, c’era ancora un elemento. Se nel Paese dei Soviet era in atto una sfida al sistema capitalistico-liberale, in quello del Dalai Lama la resistenza era passiva, anche perché fra il Tibet e l’Occidente non esistevano relazioni di sorta e quindi «ogni prospettiva storica era superflua». Va detto, infine, che per un inglese quale Byron era, il Tibet restava associato a una pagina poco commendevole dell’imperialismo britannico, una spedizione diplomatico-commerciale, a inizio Novecento, trasformatasi in sanguinosa occupazione manu militari. L’ha raccontata da par suo Peter Fleming in quel classico che è Baionette a Lhasa (Settecolori, 2021) e non ci torneremo su, ma Byron fece quel viaggio appena vent’anni dopo la spedizione comandata dal colonnello Younghusband e si trovò spesso a ripercorrerne il cammino nonché a usufruire degli stessi alloggiamenti militari divenuti sedi commerciali. L’Inghilterra aveva infatti successivamente ritirato le sue truppe, ma non per questo aveva rinunciato all’idea di un tornaconto economico.
Prima la Russia e poi il Tibet è il titolo del libro di Byron che, a trent’anni dalla sua prima pubblicazione in Italia, esce ora per Robin Edizioni (a cura di Salvatore Marano, pagg. 320, euro 16), corredata questa volta dalle foto e dai disegni originali del suo autore, appassionato d’arte e di architettura. Libro composito e libro visivo, ovvero descrittivo, come è ben messo in evidenza nell’introduzione, con una «proliferazione quasi pedantesca del dettaglio» e «una gamma pressoché illimitata dei colori che sembrano sfidare l’immaginazione del lettore».
Fino a Prima la Russia e poi il Tibet, Byron era stato uno scrittore-viaggiatore attratto dal mondo greco-bizantino, su cui aveva scritto due libri di buon successo critico, propedeutici a quello che più tardi, nel 1937, sarebbe stato il suo testo più celebre, La via per l’Oxiana, livre de chevet di Burce Chatwin e uno dei gioielli del travel writing anglosassone. Nel doppio reportage russo-tibetano, il lettore troverà molti degli elementi che rendono la prosa di Byron un classico, dalla capacità descrittiva sopra ricordata, allo humour, dall’uso disinvolto e quasi didascalico del dialogo, all’approfondimento estetico e, come dire, filosofico. Ciò che, soprattutto nella parte russa, è però un unicum è la sua capacità di coordinare le sue osservazioni intorno a un paio di intuizioni di tutto rispetto. La prima riguarda il messianismo russo o, detto in altri termini, il fatto che «tutti i russi sono redentori per vocazione», il che spiega anche la religiosità del comunismo. La seconda ha a che fare con «il dispotismo fondato sullo spionaggio», ovvero «la polizia segreta in qualche modo connaturata alla Nazione Russa», altro elemento che accoppiato al bolscevismo spiega benissimo purghe, processi e delazioni e che, dal bolscevismo disgiunto, resta ancora oggi una costante del sistema di potere russo.
La Russia serve altresì a Byron come un antidoto a eventuali cedimenti occidentali: «L’aspetto piacevole del bolscevismo è che cancella a un tempo lo strato di narcisismo accumulatosi nelle civilizzate forse troppo civilizzate – capitali occidentali, e suscita una fede nuova e combattiva nelle sorti dell’Occidente».
Questo spirito polemico è assente nelle pagine relative al Tibet. È il passaggio radicale «da un mondo noto a uno sconosciuto, il tutto nello spazio di uno sguardo. L’aria risplendeva di una luce nuova, una luminosità liquida, e annunciava scenari senza pari». Qui quel «secondo Medio Evo» paventato in un conflitto con il bolscevismo, rimanda a «uno stadio della nostra vita materiale che abbiamo superato da molti secoli e nel quale tuttavia affondano le radici della nostra tradizione». É il materialismo occidentale quello che Byron vede come una minaccia, «il vuoto spirituale in confronto della pienezza asiatica, mascherato dalla brutale presunzione di una indimostrata superiorità morale».
Byron morì che aveva appena 36 anni, nel 1941, silurato con la nave su cui viaggiava come osservatore per il governo britannico. Studente a Eton e poi a Oxford, faceva parte di quella jeunesse dorée di cui il romanziere Evelin Waugh, che come lui ne fu membro, descriverà miserie e grandezze. Si mischiavano in essa rampolli dell’aristocrazia e della borghesia, degli affari e delle professioni, in un intreccio dove il college prima, l’università dopo, fungevano da lasciapassare e da segnale di riconoscimento. Fin dall’inizio Robert vi occupò un posto di rilievo: era un lettore onnivoro, aveva un gusto spiccato per l’architettura, detestava il formalismo istituzionale di cui il sistema scolastico britannico rappresentava la quintessenza. Alla fine venne espulso. Il suo amore per l’arte bizantina nasceva dal disprezzo per la classicità, il mondo greco come veniva inteso dalla cultura del suo tempo, retaggio di una età vittoriana e da Grand Tour dove le rovine, i marmi, gli archi e le colonne significavano la quintessenza della perfezione. «Quegli inerti corpi di pietra che hanno reso ogni museo d’Europa intollerabile a qualsiasi persona dotata di sensibilità artistica» era il suo giudizio. Lettore di Spengler, aveva trovato nel Tramonto dell’Occidente la sua Bibbia, dove veniva stigmatizzata l’idea di una preminenza dell’arte classica occidentale rispetto ad altre culture. Trovava delle «impressionanti somiglianze» fra l’architettura bizantina dei conventi del monte Athos e quella del Potala, il palazzo tibetano del Dalai Lama, il legame fra paesaggio e costruzione, l’invenzione di uno stile nella loro architettura che nasceva dal modellare i temperamenti dei suoi abitatori al panorama grandioso che li circondava. Per essere moderni- bisognava rifarsi al passato, ma guardando a Oriente.
Curiosamente, non sarà però la civiltà occidentale a distruggere quel suo Tibet e il suo splendido isolamento. Sarà la Cina con il suo materialismo orientale, l’altra faccia di un’identica civiltà delle macchine.